Due vite

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Qualche anno fa ho avuto il privilegio di assistere ad una lezione di Emanuele Trevi in un corso di scrittura creativa. Mentre interrogava noi allievi sulle nostre letture e gli autori maggiormente amati mi capitò di osservare che i libri di cui ci innamoriamo sono probabilmente quelli che avremmo voluto scrivere. E ricordo che a quel punto Trevi si fermò per un attimo a riflettere, ripetendo le mie parole e annuendo con la testa.

Ecco, mentre mi lasciavo toccare dalla genuinità dei sentimenti e assaporavo la qualità della scrittura di “Due vite” (Neri Pozza – 144 pagg. – Premio Strega 2021) continuavo ad avere in mente quanto scritto da Concita De Gregorio e riportato nella terza di copertina: «Un libro che in queste settimane ho desiderato imparare a memoria, incorporare le parole come fossero mie». Esattamente la sensazione di cui parlavo allora.

Sì, perché se Trevi ha avuto un merito nel ripercorrere le vite di Rocco Carbone e Pia Pera, due colleghi scrittori e cari amici scomparsi prematuramente, uno per un incidente l’altra per una malattia terminale, è quello di aver scritto con una sincerità e un’urgenza che sfogliando le pagine si trasmettono al lettore per osmosi.

Ne escono due ritratti lucidi e al tempo stesso intimi di personalità per molti versi opposti. Rocco, anima irascibile e spigolosa, con la sua visione intransigente dell’amicizia, perpetuamente in lotta con le sue Furie. Pia, dal temperamento indipendente e quieto, un’elegante signorina inglese ricca di sensibilità e ingenuità in amore ma anche di tenacia e soprattutto dignità, quella di cui darà prova nel finale della sua vita.

C’è un tipo di saggezza che consiste nell’aspettare la verità come un eremita nel deserto, murato tra le proprie abitudini, insensibile alla mutevole varietà del mondo. Può essere: ma Pia era di tutt’altra razza: cavalleria leggera. Mentre si leccava una ferita, era già risalita in groppa. La sua forma di resistenza, o di salvezza, consisteva nel mutare orientamento, facendo fibrillare l’ago della sua bussola alla ricerca del nord che le serviva.

Più che creare un genere nuovo (l’autobiografia per interposta persona, come scrive acutamente Cristina Taglietti) mi è sembrato che Trevi sia riuscito a miscelare con sapienza vari generi, dalla critica letteraria al memoriale al romanzo psicologico, dove è egli stesso un vertice del triangolo di quel fluido navigare tra emozioni e rimpianti che è il voltarsi indietro per fermare e interrogare il passato anche soltanto per elaborarlo.     

In quella lezione di alcuni anni fa Trevi, prendendo come spunto “L’universo” del maestro zen Sengai Gibon, aveva ragionato sul linguaggio come punto di equilibrio (temporaneo e fluttuante) tra la “lingua mentale”, quella intima dei pensieri in libertà e dei sogni, afferente alla nostra sfera privata (il quadrato) e la lingua come strumento di comunicazione che si riferisce alla sfera sociale (il cerchio). Ogni volta che scriviamo, aveva concluso,  realizziamo dei movimenti contrari e simultanei da una parte per rendere comprensibile la dimensione privata ed uscire dall’isolamento e dall’altra per rendere parzialmente privato il linguaggio collettivo (cercando di dire delle cose creando l’illusione che siano state dette per la prima volta).

L’universo – Sengai Gibon

Al pari del triangolo di Sengai, credo che quel labile e magico punto di equilibrio sia esattamente ciò che è riuscito a raggiungere Emanuele Trevi con “Due vite”.

Scrivere di una persona reale e scrivere di un personaggio immaginato alla fine dei conti è la stessa cosa: bisogna ottenere il massimo nell’immaginazione di chi legge utilizzando il poco che il linguaggio ci offre. Far divampare un fuoco psicologico da qualche fraschetta umida raccattata qua e là. Il dizionario del volto, per esempio, è di una povertà cosí sconfortante («occhi», «naso», «bocca»…) che a volte ci si arrende prima ancora di iniziare. Che differenza c’è tra la Pia Pera registrata all’anagrafe di Lucca il 12 marzo del 1956 e la Tatjana di Puškin? Dal punto di vista del linguaggio, sono solo due pupazzetti fatti di scampoli lisi e fil di ferro, un ciuffetto di crine per i capelli, due bottoni spaiati per gli occhi. Se in qualche anfratto della mente fraterna e sconosciuta di un lettore riusciranno ancora a prendere un’effimera parvenza di vita, a sorridere o a rabbrividire per il freddo, rialzando il bavero del loro cappottino di stracci… questo è proprio ciò che definiamo lo spirito, ovvero la possibilità che la nostra esistenza, che trascorre tutta intera nella carne e nei suoi bisogni, possieda anche ombra, una quintessenza che la porti fuori da se stessa. Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. E quando anche l’ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno. Di una cosa sono sicuro: mentre scrivo, e fintanto che me ne sto seduto a scrivere, Pia è qui, la sua presenza è ingombrante come quella del tavolo, o della lampada. Se invece penso a Pia, ci sono solo io che la penso, è tutto nella mia testa, all’altro capo del filo c’è solo un’assenza. E se la sogno, è la stessa cosa, è un’altra parte del mio lo che sta creando la sua Pia. Ne deduco che la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne, accorgendosi ben presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta.

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