Onicomicosi

L’uomo magro cadde sul pavimento del bar. La pancia gli faceva male più di quanto pensava fosse possibile e il corpo gli si contraeva in spasmi involontari. Di sicuro è così che ci si sente quando si sta per morire, pensò. Ma quella non poteva essere la fine. Sono troppo giovane, rifletté, e sarebbe troppo imbarazzante morire così, in pantaloncini corti e Crocs sul pavimento di un caffè che un tempo era alla moda ma ormai tirava avanti a fatica. Spalancò la bocca per gridare aiuto, ma non aveva abbastanza aria nei polmoni. Questo racconto non è su di lui.

La cameriera che gli si avvicinò si chiamava Galia. Non aveva mai pensato che sarebbe diventata una cameriera. Aveva sempre sognato di occuparsi di bambini. Ma occuparsi di bambini non è un mestiere redditizio, mentre fare la cameriera sì. Non si guadagna tantissimo, ma abbastanza per pagare l’affitto e concedersi qualcos’altro. Quell’anno aveva cominciato a studiare pedagogia al college e nei giorni in cui frequentava le lezioni faceva il turno serale. La sera non veniva neanche un cane e lei guadagnava meno della metà di quello che avrebbe intascato di mattina. Gli studi però erano importanti per lei. “Sta bene?” domandò all’uomo sul pavimento. Sapeva che lui non stava bene, ma glielo chiese comunque. Questo racconto non è nemmeno su di lei.

“Sto morendo,” disse l’uomo. “Sto morendo, chiama un’ambulanza.” “Sarebbe inutile,” commentò un tipo scuro e peloso che stava leggendo un giornale al bancone del bar. “Ci metterà un’ora ad arrivare. C’è un’agitazione sindacale e i servizi sono ridotti al minimo.” Mentre lo diceva si alzò, si caricò l’uomo magro sulle spalle e disse: “Lo porto io al pronto soccorso. Ho l’auto parcheggiata qui fuori”. Lo faceva perché era una brava persona e voleva che la cameriera se ne accorgesse. Aveva divorziato di recente e un non so che nella flemma di quella ragazza lo affascinava. Aveva almeno dieci anni più di lei, ma riusciva a vederla come sua partner. Questo racconto non è nemmeno su di lui. 

In strada c’erano degli ingorghi. L’uomo magro, sdraiato sul sedile posteriore dell’auto, gemeva in maniera quasi impercettibile e sbavava sul rivestimento dell’Alfa Sport nuova del peloso. Quando lui aveva divorziato, gli amici gli avevano detto che avrebbe dovuto sostituire la sua Mitsubishi Station Wagon con un’auto da scapolo. Le ragazze capiscono molto di te dalla macchina che possiedi. Una Mitsubishi dice: divorziato, a pezzi, cerca una fessacchiotta che sostituisca la precedente. Un’Alfetta sportiva, invece, suona più tipo: sgamato, giovane di spirito, alla ricerca di avventure. E anche se sul sedile posteriore c’era un uomo magro che si contorceva, quella, per il peloso, era una specie di avventura. Sono come un’ambulanza, pensò. Non ho la sirena ma posso strombazzare perché le auto mi facciano strada. Posso passare col rosso come nei film. E mentre lo pensava premette forte sull’acceleratore e un furgoncino Renault bianco gli andò a sbattere contro la fiancata. Il conducente del furgoncino era un uomo religioso che non aveva la cintura di sicurezza e nello schianto rimase ucciso sul colpo. Questo racconto non è nemmeno su di lui.

Di chi era la colpa dell’incidente? Del peloso che aveva accelerato e ignorato lo stop o del conducente del furgoncino che non aveva la cintura di sicurezza e viaggiava oltre il limite di velocità consentito? Quell’incidente aveva un unico colpevole. Perché ho inventato tutti questi personaggi? Perché ho ammazzato un religioso con la kippah che non mi aveva fatto niente di male? Perché ho fatto star male un uomo magro che nemmeno esiste? Perché ho distrutto la famiglia di un tipo scuro e peloso? Il fatto che ci si inventi dei personaggi non ci esonera dalla responsabilità nei loro confronti e, contrariamente alla vita vera, in cui ci si può stringere nelle spalle e puntare un dito al cielo, in questo caso non ci sono scusanti. Il cielo sei tu. Se il tuo personaggio fallisce, è perché tu lo hai fatto fallire. Se gli succede qualcosa di brutto, è solo perché tu lo hai voluto. Hai voluto vederlo immerso nel suo sangue.

Mia moglie entra nella stanza e mi domanda: “Stai scrivendo?”. Vorrebbe chiedermi qualcosa, glielo leggo in faccia, però non vuole disturbare. Non vuole, ma in ogni caso mi ha già disturbato. Io rispondo di sì, ma dico che non importa. Che questo racconto non ingrana. Che non è nemmeno un racconto. È un prurito. Un’onicomicosi. Lei annuisce, come se capisse di che cosa sto parlando. Però non è così. Questo non significa che lei non mi ami. Si può amare anche senza capire.

Edgar Keret – Un intoppo ai limiti della galassia

Concentrato di automobile

In mezzo al grande soggiorno vuoto di casa mia, tra un divano di pelle logoro e uno stereo vetusto che suona dischi di blues graffiati, c’è un cubo di metallo schiacciato. È rosso con una striscia bianca, e quando la luce del sole lo colpisce dalla giusta angolazione, il suo riflesso può accecare. Non è un tavolino, anche se spesso ci metto sopra delle cose, e nessuno entra in casa mia senza fare domande al riguardo, lo ogni volta do una risposta diversa, a seconda dell’umore e anche di chi chiede.

Talvolta dico “è una cosa di mio padre”, altre che è un grosso ricordo, altre ancora che è una Mustang del ’68 decappottabile” o “una vendetta rosso brillante”. Capita persino che dica che è l’ancora che trattiene questa casa, senza di lei sarebbe già tutto volato via da un pezzo”. A volte mi limito a rispondere che è un’opera d’arte. Gli uomini cercano immancabilmente di sollevarlo. Le donne, in genere, lo sfiorano con prudenza con il dorso della mano, come se controllassero la febbre a un bambino. Se qualcuna di loro lo tocca con il palmo, lo accarezza letteralmente e dice qualcosa del tipo “è fresco” o “è piacevole, è segno che devo tentare di portarla a letto.

Il fatto che la gente si interessi a questo pezzo di metallo schiacciato a me fa piacere. Sia perché da un lato è rassicurante sapere che c’è almeno una cosa prevedibile in questo mondo caotico, sia perché mi risparmia un sacco di risposte a domande del tipo “Che lavoro fai?” o “Come ti sei fatto questa cicatrice?” oppure “Quanti anni hai?”. Io lavoro alla mensa di una scuola superiore intitolata ad Abraham Lincoln, la cicatrice me la sono fatta in un incidente d’auto e ho 46 anni. Nessuna di queste informazioni è segreta, ma preferisco comunque che mi si chieda del cubo schiacciato perché da lì posso arrivare a conversare di qualsiasi argomento. Di Robert Kennedy, che è stato assassinato nell’anno in cui è stata prodotta la Mustang schiacciata nel salotto, di arti plastiche di scadente qualità, per non parlare di tutto quanto sta nel mezzo: di mio padre, per esempio, che portava me e mio fratello a fare un giro con la Mustang quando veniva a trovarci in collegio. O del fatto che ci sono volute otto persone per caricare il cubo sul mio pick-up e gli ammortizzatori hanno ceduto. O di mia madre, che è morta quand’ero piccolissimo perché mio padre guidava ubriaco un’altra macchina, più grigia e meno bella della Mustang, che ha comprato poi, dopo l’incidente, con i soldi dell’assicurazione. Tutto dipende da dove voglio arrivare. Una conversazione è come una galleria che si scava pazientemente con un cucchiaio nel pavimento della prigione. Lo scopo è uscire dal luogo dove ti trovi e quando scavi hai sempre un obiettivo da raggiungere: suscitare un sentimento di empatia, che magari ti porterà a una scopata, di complicità maschile che ben si abbina con una bottiglia di whisky, di fiducia nel padrone di casa che viene a chiederti l’affitto. Ogni galleria ha una sua direzione ma il cucchiaio, almeno per me, è sempre lo stesso: la Mustang bianca e rossa decappottabile del ’68, pressata alle dimensioni di un minibar al centro del mio salotto. 

Janet lavora con me alla mensa. Sta sempre alla cassa perché il gestore si fida di lei ma anche lì è comunque abbastanza vicina al cibo per emanare dai capelli un odore di minestrone. È single e madre di due gemelli. È una brava mamma, proprio come mi piace pensare che fosse la mia. Quando la vedo con i suoi figli a volte cerco di immaginare cosa sarebbe successo se in quell’incidente di quaranta e rotti anni fa fosse morto papà, e mia madre ne fosse uscita viva. Che cosa ne sarebbe stato di me e di mio fratello oggi? Saremmo diversi o anche così ci ritroveremmo io nella cucina di una mensa e lui nella sezione di massima sicurezza di una prigione del New Jersey? Quello che è certo è che in quel caso non avrei la Mustang pressata in salotto.

Janet è forse la prima ragazza che ha dormito a casa mia e non ha fatto domande sul cubo rosso. Dopo il sesso le preparo un caffè freddo e mentre lo beviamo cerco di introdurre il discorso della Mustang pressata. Come prima cosa ci appoggio sopra il bicchiere del caffè con i cubetti di ghiaccio e aspetto che lei mi faccia una domanda, ma quando vedo che lo stratagemma non funziona cerco un modo per incuriosirla. Sono un po’ indeciso su quale storia raccontare: quella che all’inizio il cubo puzzava e io già pensavo che ci fosse rimasta dentro la carogna di un gatto, o quella dei ladri che si sono introdotti in casa mia e, non trovando niente, hanno cercato di sollevarlo e per lo sforzo uno di loro si è rotto una vertebra. Alla fine decido per la storia di mio padre. Qualcosa di meno buffo, di più intimo. Racconto che io avevo cercato papà per tutto l’Ohio e poco dopo avere scoperto che era morto, la sua ultima donna mi aveva detto che avevano appena portato la Mustang da uno sfasciacarrozze. Ero arrivato con cinque minuti di ritardo e perciò è questa l’unica cosa che mi è rimasta di mio padre: non un modello classico e figo di automobile, ma un blocco di metallo pressato in salotto.

“Gli volevi bene?” mi domanda Janet intingendo il dito nel caffè freddo e succhiandolo. Qualcosa nel modo in cui lo fa, chissà perché, mi ripugna. Penso freneticamente a come evitare di rispondere. Non provavo dei gran sentimenti nei confronti di mio padre e quei pochi che avevo non erano positivi. Parlarne ora, perciò, mentre stiamo bevendo un caffè freddo, nudi, non mi sembra né divertente né eccitante. Le propongo quindi di venire da me con i gemelli il prossimo sabato e di fermarsi a dormire. “Sei sicuro?” chiede lei. Janet vive con sua madre e per lei non sarebbe un problema venire da sola. “Certo,” rispondo, “sarà divertente.” Lei non lo dà a vedere ma sembra contenta. E invece di parlare di tutte le stronzate che io e mio fratello abbiamo dovuto sopportare prima che mio padre facesse a tutti il favore di sparire dalla nostra vita, io e Janet scopiamo in salotto. Lei si china sulla Mustang e io la penetro da dietro.

I gemelli di Janet si chiamano David e Jonathan. È stato il padre a decidere i nomi, pensava che fosse una trovata divertente. Janet non impazziva all’idea, le sembrava una cosa un po’ gay, ma ha accettato senza fare discussioni. Dopo essersi portata in pancia i gemelli per nove mesi pensava che sarebbe stato giusto dare la sensazione al suo uomo che i bambini fossero anche un po’ suoi. Non che questo l’abbia aiutata. Da più di cinque anni non ha più notizie del padre.

I piccoli hanno sette anni, e sono carinissimi. Non appena arrivano esplorano il giardino e scoprono l’albero storto. Provano ad arrampicarsi e cadono. Ritentano e ricadono. Si ammaccano, si graffiano ma non piangono. Mi piacciono i bambini che non piangono. Anch’io ero così. Poi giochiamo un po’ a frisbee in giardino, ma Janet dice che fa caldo ed è meglio se entriamo a bere qualcosa. Io preparo una limonata e metto i bicchieri sulla Mustang. I gemelli ringraziano prima di assaggiarla, si vede che sono beneducati. David mi chiede della Mustang e gli dico che è un concentrato di automobile che tengo in salotto per le emergenze, nel caso il mio pick-up si guastasse. “E se dovesse guastarsi cosa faresti?” domanda David con gli occhioni sgranati. “Ci verserò sopra abbastanza acqua perché si sciolga e ridiventi una macchina così che io possa andare al lavoro.” “E non sarà bagnata?” si incuriosisce Jonathan, che ascolta con la fronte aggrottata. “Un pochino,” dico io, “ma è meglio un’automobile bagnata cha andare a piedi.”

Quella sera racconto loro una storia prima di metterli a letto. Janet si è dimenticata di portare i loro libri e così io me ne invento una. E la storia di due gemelli che, presi singolarmente, sono bambini normali, ma non appena sono insieme acquistano superpoteri. I piccoli sono entusiasti, vanno matti per i superpoteri. Dopo che si sono addormentati, io e Janet fumiamo qualcosa che ci ha venduto Ross, il bidello della scuola. È roba buona. Scopiamo e ridiamo tutta la notte, ridiamo e scopiamo.

Ci svegliamo solo a mezzogiorno. O meglio, Janet si sveglia. Io apro gli occhi solo quando sento le sue urla. Scendo vedo il salotto completamente allagato. David e Jonathan sono vicini alla Mustang con il tubo dell’acqua che hanno portato dal giardino. Janet urla loro di chiudere l’acqua e David corre subito al rubinetto. Jonathan mi vede accanto alle scale. “Guarda,” dice, “è rotta. Ci abbiamo già versato sopra un sacco di acqua e provato a mescolare ma non funziona.” Il tappeto rosso del salotto è sommerso dall’acqua e anche i vecchi dischi. Lo stereo sprigiona bolle come un animale che sta per annegare. Sono solo oggetti, dico a me stesso. Roba che non mi serve. “Ti hanno imbrogliato,” sentenzia Jonathan continuando ad agitare il tubo, “ti hanno venduto una macchina rotta.”

Janet avrebbe dovuto evitare di dargli uno schiaffo, e nemmeno io mi sono comportato bene. Non avrei dovuto intromettermi, non sono figli miei. E di certo non avrei dovuto reagire come ho reagito. Lei è una brava madre e si è fatta prendere dall’agitazione solo a causa di quella strana situazione. E pure io mi sono innervosito. Solo se lei riuscirà a capire come mai le è sfuggito quello schiaffo, senza cattive intenzioni, potrà comprendere perché le ho dato uno spintone. L’ultima cosa che volevo era farle del male, cercavo solo di allontanarla dai gemelli finché non si fosse calmata. E se non ci fosse stata tutta quell’acqua sul pavimento non sarebbe scivolata.

Le ho già lasciato cinque messaggi in segreteria, ma non mi ha richiamato. So che sta benissimo perché me l’ha detto sua madre. Ha perso solo un po’ di sangue e le hanno dato qualche punto. Le hanno anche fatto una antitetanica perché la Mustang era arrugginita. Dopo che lei se n’è andata con i bambini ero preoccupato e l’ho raggiunta a casa sua. Sua madre è uscita e mi ha detto che Janet non voleva più veder mi e, dopo aver tossito a lungo a causa delle sigarette, ha aggiunto che quel “non voleva più vedermi” non era poi così definitivo come sembrava. Se le avessi dato abbastanza tempo e lasciato abbastanza spazio di certo l’arrabbiatura le sarebbe passata.

Domani, al lavoro, le porterò un regalino: un fermaglio per i capelli, o un paio di calzini. Lei va matta per quelle strane calze con grandi pois rossi, o con le orecchie all’ingiù come quelle di un cane. Se non vorrà parlarmi lascerò il regalo avvolto nella carta vicino alla cassa e andrò in cucina. Alla fine mi perdonerà e, quando le darò di nuovo un passaggio a casa, le racconterò tutta la storia della Mustang e di mio padre. Di tutto quello che lui ha fatto a me e a mio fratello e di come noi lo odiavamo. E di come Don, quando è andato in prigione, mi ha chiesto di ritrovarlo e di rinfacciargli che razza di padre di merda era stato. Le racconterò di quella notte allo sfasciacarrozze. Di come ho goduto nel vedere l’amata automobile di papà ridursi in niente. Le racconterò tutto, e forse allora lei potrà capire. O quasi tutto. Non le dirò che quando ho portato la Mustang a rottamare a Cleveland, il corpo di mio padre era ancora caldo nel bagagliaio. E dopo che lei mi avrà perdonato tornerà da me con i bambini e io e loro porteremo il tubo dell’acqua in salotto, chiuderemo le porte, le sigilleremo con degli stracci e poi apriremo completamente il rubinetto arrugginito in cortile e non lo chiuderemo fino a che la grande stanza vuota non si sarà trasformata in un mare.

Etgar Keret – Un intoppo ai limiti della galassia