Shabbat e Menuchà

Il rabbino s’interruppe per accarezzarsi la barba lustra. « Mentre me ne stavo qui ad ascoltare i miei amici, mi è tornata in mente una storia. Una lezione, in realtà, imparata a scuola dal rabbino. Un autentico tzaddik, un giusto, uno dei migliori insegnanti che abbia mai avuto: senza di lui la mia vita avrebbe imboccato un corso diverso. Ci leggeva ad alta voce la Torah. Quella volta si trattava di un passo della Genesi, e quando il rabbino arrivò al versetto “Allora D.o nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto”, si fermò e ci guardò. Avevamo notato qualcosa di strano? volle sapere. Noi ci grattammo la testa. Tutti sanno che il settimo giorno è lo Shabbat, perciò cosa c’era di così strano?

« “Aha!” esclama il rabbino, scattando in piedi come faceva ogni volta che si lasciava prendere dall’entusiasmo. “Ma qui non c’è scritto che D.o il settimo giorno si riposò! Dice solo che portò a termine il suo lavoro. Quanti giorni aveva impiegato per creare i cieli e la terra?” ci domanda. “Sei” rispondiamo noi. Quindi perché il testo non dice che D.o fini l’opera in quella giornata? Che terminò il sesto giorno e il settimo si riposò?” »

Epstein si guardò intorno, chiedendosi dove voleva andare a parare con quel discorso.

« Ebbene, il rabbino ci spiega che quando si riunirono per scervellarsi su quel problema, gli antichi saggi conclusero che doveva esserci stato un atto di creazione anche nel settimo giorno. Ma quale? Il mare e la terra esistevano già. E così pure il sole e la luna. L’erba e gli alberi, gli animali e gli uccelli. Persino l’uomo. Cosa poteva mancare ancora nell’universo? si domandarono quegli antichi saggi. Alla fine, un vecchio studioso ingrigito che se ne stava sempre da solo in un angolo fece sentire la propria voce. “La menuchà” disse. “Cosa?” sbottarono gli altri. Parla più forte, non riusciamo a sentirti.” “Con lo Shabbat, Dio creò la menucha” ripeté il vecchio studioso “e così il mondo fu completo.” »

Madeleine Albright spinse la sedia all’indietro e si diresse fuori dalla stanza con un lieve stropiccio prodotto dal tessuto del suo tailleur pantalone. L’oratore non parve turbato. Per un attimo Epstein pensò che il rabbino avrebbe potuto addirittura occupare la sedia vuota, come poco prima si era appropriato del diritto di parola al quale lui aveva rinunciato. Invece Klausner restò in piedi, per dominare meglio la stanza. Le persone che lo circondavano erano indietreggiate un po’ per lasciargli spazio.

« “Dunque qual è il significato della parola menuchà?” vuol sapere da noi il rabbino. Siamo un branco di bambini irrequieti che guardano fuori dalla finestra, con un unico interesse al mondo: starcene all’aperto a giocare a pallone. Nessuno apre bocca. Il rabbino aspetta e quando è ormai chiaro che non intende darci la risposta, un ragazzino in fondo all’aula, l’unico con le scarpe lucide, quello che torna sempre subito a casa dalla mamma, il lontano discendente del vecchio studioso ingrigito che custodiva in sé l’antica saggezza di chi siede in un angolo, fa sentire la propria voce. “Riposo” dice. “Riposo!” esclama il rabbino, sputacchiando spruzzi di saliva, come gli succede nei momenti di entusiasmo. “Ma non solo! Perché il termine menuchà non indica semplicemente una pausa da un’attività, un intervallo da un impegno gravoso. Non è soltanto il contrario della fatica e del lavoro. Se è stato necessario uno specifico atto creativo per porre in atto la sua realtà, deve senza dubbio essere qualcosa di straordinario. Non il semplice opposto di un’entità già esistente, ma un valore positivo unico nel suo genere, senza il quale l’universo sarebbe incompleto. No, non soltanto riposo” continua il rabbino. “Tranquillità! Serenità! Calma! Pace. Uno stato in cui non ci sono conflitti né lotte. Non c’è paura né diffidenza. Menuchà. Lo stato in cui l’uomo giace in perfetta quiete.” »

« Abu Mazen, se mi è consentito continuare… » Klausner abbassò la voce e si sistemò la kippah che gli era scivolata all’indietro sulla testa. « In quella classe di dodicenni, neppure uno di noi capì ciò che il rabbino intendeva dire. Ma io le chiedo: in questa stanza c’è forse qualcuno in grado di comprenderlo meglio? Di comprendere quell’atto creativo unico tra tutti, il solo che non abbia dato origine a un’entità eterna? Il settimo giorno Dio creò la menuchà. Però la rese fragile. Incapace di durare. Perché? Perché, se ogni altra cosa nata dalla sua volontà resiste agli effetti del tempo? »

Klausner fece una pausa, percorrendo la sala con lo sguardo. La sua fronte enorme luccicava di sudore, anche se in lui non c’erano altri segni di sforzo. Epstein si chinò in avanti, in attesa.

« Perché sia compito dell’uomo ricrearla di continuo » disse infine Klausner. « Ricreare la menuchà, affinché ci rendiamo conto che non siamo semplici spettatori dell’universo, ma una presenza attiva. Che senza il nostro intervento, l’universo che D.o intendeva destinare a noi rimarrà in completo. »

Nicole Krauss – Selva Oscura – pagg. 31-33

Heimlich e Unheimlich

Tuttavia, l’indomani mattina, conclusa la telefonata a casa per parlare con i bambini, rintracciai il testo di Freud, che adesso mi sembrava cruciale per il mio romanzo sull’Hilton: non avrei potuto iniziare a scrivere senza consultarlo. Distesa sul letto, cominciai a leggere l’etimologia dell’aggettivo tedesco, che deriva da Heim, « casa », per cui heimlich significa « familiare, natio, attinente alla casa ». Freud aveva composto il suo saggio in risposta all’opera di Ernst Jentsch, il quale definiva il concetto dell’Unheimliche come l’opposto di heimlich: come l’effetto dell’incontro con il nuovo e il poco familiare, che provoca un senso d’incertezza, l’impressione di non sapere « dove ci si trova ». Ma se heimlich può voler dire « familiare » e « domestico », il suo significato secondario, sottolinea Freud, racchiude in sé sia la nozione di entità « nascoste » e « sottratte alla vista », sia l’idea di « scoprire o svelare ciò che è segreto » e persino « ciò che è rimosso dalla coscienza » (dizionario dei fratelli Grimm), per cui con la progressiva scoperta delle sue sfumature semantiche, la parola heimlich finisce per coincidere con il suo contrario, unheimlich, termine riferito dal filosofo tedesco Schelling « a tutto ciò che potrebbe restare… segreto, nascosto, e che è invece affiorato ».

Tra le circostanze in grado di suscitare sensazioni perturbanti, la prima citata da Freud è l’idea del doppio. Come se mi fossi data una manata sulla fronte, ricordai quanto mi era successo sei mesi prima, quando entrando in casa avevo avuto la certezza di esserci già: l’esperienza che aveva messo in moto la catena di pensieri da cui ero stata condotta fin lì, all’Hilton. Tra gli altri esempi forniti da Freud ci sono il ritorno involontario a una stessa situazione e la ripetizione di un fenomeno casuale che crea un senso di predestinazione o di inesorabilità. Il fattore comune a tutti questi casi è la centralità della reiterazione e, arrivando al cuore del suo saggio, Freud giunge infine a proporre l’Unheimliche come una particolare categoria d’inquietudine innescata da un elemento rimosso che torna a manifestarsi. Negli annali dell’etimologia, in cui heimlich e unheimlich si rivelano una cosa sola, troviamo il segreto di questo particolarissimo genere di ansia, ci spiega Freud, un’ansia che in fin dei conti non nasce dall’incontro con una realtà nuova ed estranea, ma piuttosto dall’imbattersi in un fattore familiare e antico da cui la mente si è estraniata grazie al processo della rimozione. Una realtà che avrebbe dovuto essere mantenuta nascosta, e che invece è emersa alla luce. (…)

Heim, casa. Sì, il luogo dove siamo sempre stati, per quanto ignoto alla coscienza, può essere soltanto definito così, non è vero? Eppure, da un altro punto di vista, la casa non rivela forse il suo valore unicamente quando la lasciamo, perché è solo con la distanza, solo con il ritorno, che siamo in grado di riconoscerla come il posto che custodisce il nostro vero io? 

O magari stavo rivolgendomi alla lingua sbagliata nella mia ricerca di una risposta. In ebraico la parola per indicare il mondo è olam, e mi venne in mente che mio padre una volta mi aveva detto che deriva dalla radice alam, il cui significato è « nascondere » o « occultare ». Nella disamina sul punto in cui heimlich e unheimlich si dissolvono l’uno nell’altro per illuminare una forma di inquietudine (un elemento che avrebbe dovuto restare sommerso, ma che nonostante ciò è venuto a galla), Freud ha quasi sfiorato la saggezza dei suoi antenati ebrei. Alla fine però, bloccato dalla lingua tedesca e dalle angosce della mentalità moderna, non ha raggiunto il radicalismo dei suoi progenitori. Per gli antichi ebrei, il mondo era sempre nascosto e insieme rivelato.

Nicole Krauss – Selva Oscura – pagg. 85/88