Educarsi allo stupore

È una mattina dei primi di giugno. Sono i tempi dell’Università e sto preparando l’esame di Storia dell’Arte. Arrivato alla pagina sulla Volta della Cappella Sistina mi rendo conto che per quanto continui a sguerciarmi sull’Argan certe nozioni non riesco a verificarle. Guardo l’orologio,  è ancora presto, e dal momento che abito a quindici minuti dal Vaticano decido di andarci. Una volta lì pago il biglietto e invece di accodarmi alla folla di turisti spinti dai loro bovari in direzione Galleria delle Carte Geografiche – Stanze di Raffaello seguo contromano la via breve che mi porta direttamente alla Cappella Sistina.

Una volta dentro mi apparto in un angolo e tiro fuori il libro. Comincio a ripassare sul posto, verifico le parti che devo approfondire, alzo la testa ed è allora che accade. Mi manca il respiro. Un brivido mi attraversa la schiena. Una sensazione che mi abita per lo spazio di un istante. Eppure sufficiente per accorgermi che a forza di stare per giorni con la testa sprofondata sui libri impegnato a immagazzinare informazioni ho perso di vista la straordinarietà di ciò che adesso, srotolato sotto i miei occhi, reclama il proprio diritto alla meraviglia.   

Per molto tempo ho pensato a quel momento cercando di impormi di guardare ciò che avevo intorno, opera dell’uomo o del Creatore, con occhi ogni volta nuovi. E come cerchi concentrici che una volta gettato un sasso in uno stagno si allargano sempre di più, ho pensato che questo stesso modo di educarsi è replicabile in tutti gli altri ambiti della nostra vita. Dagli affetti che ci circondano allo sguardo indulgente nei confronti del passato.

In fondo, niente di più del vecchio pistolotto sull’importanza di vivere l’attimo. Di educarsi a non dare nulla per scontato. Di godere di ciò che abbiamo nel momento in cui lo viviamo invece di rimpiangerlo quando è trascorso. Teoria, spesso e volentieri. Purtroppo.

Trascorrono poco meno di trent’anni e, dopo un lungo percorso di riavvicinamento alla religione ebraica, mi ritrovo a entrare nel mondo dello Shabbat. Mi accorgo che, in fondo, una delle lancette che imprimono un ritmo diverso a questo tempo “altro”, placato e sospeso, è proprio questo obbligo ad arrestarsi per recuperare il senso della meraviglia. Di fronte a ciò che siamo e a dove ci troviamo, arretrando quel tanto che ci consenta di cambiare la prospettiva dello sguardo per abbracciare il panorama che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni con animo diverso. Perché è diverso il nostro baricentro.

Predisposizione che per quanto mi sforzi, dall’accensione delle candele della havdalà fino allo Shabbat successivo, torna a essere un’esperienza autoimposta. E volatile. Sì, perché regalarsi degli occhi nuovi non è tanto una questione di quantità di tempo. Ma di una qualità capace di restituire alla pelle la porosità posseduta da bambini di fronte allo stupore.

Ora, mentre scrivo non saprei dire se in quella famosa mattina internet ancora non esistesse o se ci trovassimo negli anni in cui nessuno aveva ancora la minima idea sulla sua utilità nella vita pratica. Sta di fatto che, se mi fosse accaduto oggi, so con certezza che invece di alzarmi dalla scrivania sarei andato su Google e avrei cercato qualche sito specializzato o un tour virtuale. Con la differenza che la meraviglia, per quanti sforzi possa fare il marketing, uno schermo Oled non sa ancora replicarla.

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Shabbat e Menuchà

Il rabbino s’interruppe per accarezzarsi la barba lustra. « Mentre me ne stavo qui ad ascoltare i miei amici, mi è tornata in mente una storia. Una lezione, in realtà, imparata a scuola dal rabbino. Un autentico tzaddik, un giusto, uno dei migliori insegnanti che abbia mai avuto: senza di lui la mia vita avrebbe imboccato un corso diverso. Ci leggeva ad alta voce la Torah. Quella volta si trattava di un passo della Genesi, e quando il rabbino arrivò al versetto “Allora D.o nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto”, si fermò e ci guardò. Avevamo notato qualcosa di strano? volle sapere. Noi ci grattammo la testa. Tutti sanno che il settimo giorno è lo Shabbat, perciò cosa c’era di così strano?

« “Aha!” esclama il rabbino, scattando in piedi come faceva ogni volta che si lasciava prendere dall’entusiasmo. “Ma qui non c’è scritto che D.o il settimo giorno si riposò! Dice solo che portò a termine il suo lavoro. Quanti giorni aveva impiegato per creare i cieli e la terra?” ci domanda. “Sei” rispondiamo noi. Quindi perché il testo non dice che D.o fini l’opera in quella giornata? Che terminò il sesto giorno e il settimo si riposò?” »

Epstein si guardò intorno, chiedendosi dove voleva andare a parare con quel discorso.

« Ebbene, il rabbino ci spiega che quando si riunirono per scervellarsi su quel problema, gli antichi saggi conclusero che doveva esserci stato un atto di creazione anche nel settimo giorno. Ma quale? Il mare e la terra esistevano già. E così pure il sole e la luna. L’erba e gli alberi, gli animali e gli uccelli. Persino l’uomo. Cosa poteva mancare ancora nell’universo? si domandarono quegli antichi saggi. Alla fine, un vecchio studioso ingrigito che se ne stava sempre da solo in un angolo fece sentire la propria voce. “La menuchà” disse. “Cosa?” sbottarono gli altri. Parla più forte, non riusciamo a sentirti.” “Con lo Shabbat, Dio creò la menucha” ripeté il vecchio studioso “e così il mondo fu completo.” »

Madeleine Albright spinse la sedia all’indietro e si diresse fuori dalla stanza con un lieve stropiccio prodotto dal tessuto del suo tailleur pantalone. L’oratore non parve turbato. Per un attimo Epstein pensò che il rabbino avrebbe potuto addirittura occupare la sedia vuota, come poco prima si era appropriato del diritto di parola al quale lui aveva rinunciato. Invece Klausner restò in piedi, per dominare meglio la stanza. Le persone che lo circondavano erano indietreggiate un po’ per lasciargli spazio.

« “Dunque qual è il significato della parola menuchà?” vuol sapere da noi il rabbino. Siamo un branco di bambini irrequieti che guardano fuori dalla finestra, con un unico interesse al mondo: starcene all’aperto a giocare a pallone. Nessuno apre bocca. Il rabbino aspetta e quando è ormai chiaro che non intende darci la risposta, un ragazzino in fondo all’aula, l’unico con le scarpe lucide, quello che torna sempre subito a casa dalla mamma, il lontano discendente del vecchio studioso ingrigito che custodiva in sé l’antica saggezza di chi siede in un angolo, fa sentire la propria voce. “Riposo” dice. “Riposo!” esclama il rabbino, sputacchiando spruzzi di saliva, come gli succede nei momenti di entusiasmo. “Ma non solo! Perché il termine menuchà non indica semplicemente una pausa da un’attività, un intervallo da un impegno gravoso. Non è soltanto il contrario della fatica e del lavoro. Se è stato necessario uno specifico atto creativo per porre in atto la sua realtà, deve senza dubbio essere qualcosa di straordinario. Non il semplice opposto di un’entità già esistente, ma un valore positivo unico nel suo genere, senza il quale l’universo sarebbe incompleto. No, non soltanto riposo” continua il rabbino. “Tranquillità! Serenità! Calma! Pace. Uno stato in cui non ci sono conflitti né lotte. Non c’è paura né diffidenza. Menuchà. Lo stato in cui l’uomo giace in perfetta quiete.” »

« Abu Mazen, se mi è consentito continuare… » Klausner abbassò la voce e si sistemò la kippah che gli era scivolata all’indietro sulla testa. « In quella classe di dodicenni, neppure uno di noi capì ciò che il rabbino intendeva dire. Ma io le chiedo: in questa stanza c’è forse qualcuno in grado di comprenderlo meglio? Di comprendere quell’atto creativo unico tra tutti, il solo che non abbia dato origine a un’entità eterna? Il settimo giorno Dio creò la menuchà. Però la rese fragile. Incapace di durare. Perché? Perché, se ogni altra cosa nata dalla sua volontà resiste agli effetti del tempo? »

Klausner fece una pausa, percorrendo la sala con lo sguardo. La sua fronte enorme luccicava di sudore, anche se in lui non c’erano altri segni di sforzo. Epstein si chinò in avanti, in attesa.

« Perché sia compito dell’uomo ricrearla di continuo » disse infine Klausner. « Ricreare la menuchà, affinché ci rendiamo conto che non siamo semplici spettatori dell’universo, ma una presenza attiva. Che senza il nostro intervento, l’universo che D.o intendeva destinare a noi rimarrà in completo. »

Nicole Krauss – Selva Oscura – pagg. 31-33

Shabbat e mitzvòt per S.Y. Agnon

Che bello che è l’arrivo del Sabato al Muro del Pianto! Le pietre sante, la cui santità ci fa luce nel buio del nostro esilio, sono ancora più sante in questo giorno, e tutto Israele è più santo e si santifica in esso e nella memoria e nell’osservanza, in attesa della redenzione. O a memoria o con il formulario, Isacco pregava. A volte si lasciava commuovere dalle semplici e tuttavia toccanti melodie dei modernisti, a volte veniva travolto dalle vibranti, accalorate preghiere dei pietisti. Qualunque fosse la melodia che ascoltava, dentro di sé sentiva la propria, insieme a note sparse delle litanie che gli giungevano dalla sua città natale. In quel trasporto di cuore, Isacco scordava le proprie colpe e si sentiva come un bambino immacolato, candido come in quei primi tempi della sa vita, fanciullo della sua città – con un aggiunta di santità attinta da quella di Gerusalemme. Che bella che è la luce della misericordia, per l’anima che l’anela.

Ma la misericordia non è durevole, giacché questo dono si svela solo a tratti, a maggior ragione per chi non è poi così degno che la luce della suddetta lo ammanti costantemente. Per quanto ci si sforzi di mettere il nostro Isacco in buona luce, dobbiamo ammettere che non era migliore degli altri nostri compari. Che altro aggiungere al proposito? Tutti noi cerchiamo il meglio, ma quel meglio che cerchiamo non è il vero bene. Tutto ciò esige però una spiegazione, che si farà del nostro meglio per fornire al lettore.

Quando da giovani studiavamo la Torah, sapevamo che tutto ciò che vi sta scritto esiste per l’eternità. E l’unico desiderio di tutti noi, del nostro popolo, era quello di rispettare i precetti e compiere opere buone, così come tutto ciò che sta scritto nella Torah. In seguito, però, ci sono cascati per le mani altri libri, dove abbiamo scovato cose che nemmeno ci immaginavamo. Il dubbio si è infiltrato nella nostra coscienza. E quando siamo entrati nel territorio del dubbio, abbiamo cominciato a trascurare i precetti. Alcuni tuttavia li abbiamo mantenuti, per non fare arrabbiare i nostri genitori. Quando poi siamo saliti in Terra d’Israele, ritrovandoci liberi dal giogo paterno, abbiamo fatto che rigettare anche quello della Torah. Chi se ne è affrancato per ansia di libertà, chi pensando erroneamente che il Santo volesse da lui solo buon cuore e opere di misericordia. Alcuni pensatori del nostro tempo ci hanno dato manforte nell’errore, con le loro ricerche e i loro scritti, sostenendo che gran parte dei precetti non fossero altro che il frutto della condizione esilica. Sarebbe andata così: quando i nostri primi maestri, esiliati dalla nostra terra, cominciarono a temere che ci assimilassimo nelle genti, decisero di impartirci molti comandamenti, per tenerci separati dagli altri popoli. Infatti, finché Israele era rimasto sulla sua terra, che cosa avevano preteso i profeti, dalla gente? Un cuore buono e opere di misericordia. E così sarebbe stato di nuovo, quando fossimo tornati alla nostra terra. Adesso che ciò sta accadendo e che il pericolo di assimilazione ai gentili è passato, non ci sarebbe più bisogno dei precetti d’ordine pratico, come è detto nel Talmud: nel tempo a venire i precetti saranno aboliti. Più o meno in questo equivoco incorrono le belle anime di questo nostro tempo, cui andiamo dietro, senza renderci conto che i primi tempi ormai sono passati, ma il Messia ancora non è arrivato, e l’esilio c’è ancora. 

Queste idee governavano la generazione di Isacco. E anche lui, benché non fosse troppo preso dalle questioni intellettuali, si era sbarazzato della legge e del giogo dei precetti. Per questo motivo, la luce della misericordia divina svaniva appena la intravedeva, come quella lanterna che non avendo più pareti non riesce a mantenere viva la fiammella. (…)

S.Y. Agnon – Appena ieri – pagg. 328/329

Pillole di cultura ebraica: la parashà di Shemòt e Il valore profondo della riconoscenza*

*Rielaborato da argomenti trattati da Eithan Della Rocca e rav Roberto Della Rocca.

Questo Shabbat si inizia a leggere il libro di Shemòt che in italiano viene indicato come l’Esodo (perché l’argomento principale riguarda l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto) ma che in realtà letteralmente si dovrebbe tradurre con “Nomi”. Inizia, infatti, con il lungo elenco delle settanta persone (sessantanove in realtà) scese in Egitto insieme a Ya’akov.

All’interno della parashà di questa settimana troviamo però anche un altro riferimento alla questione dei nomi dal momento che i maestri si interrogano su quale nome ebraico fosse stato dato a Moshè nei suoi primi tre mesi di vita prima di essere affidato alle acque. Questi per tradizione sono dieci, tra i quali Yekutièl (dalla radice kavè, sperare) e Tuvyà (Tobia) in quanto sua madre quando nacque vide che era (tov) buono (a questo proposito Rashì in un famoso e poetico commento si richiama alla prima volta che compare la parola tov nella Torà – in Bereshit 1-4: «E D-o vide che la luce era cosa buona» – affermando che alla nascita di Moshè la casa si riempì di luce). Nasce allora la domanda sul perché il personaggio principale di grandissima parte della Torà (che non a caso viene spesso chiamata Torat Moshè, la bibbia di Mosè) con tanti nomi ebraici conservi proprio quello egiziano impostogli dalla madre adottiva, la figlia del faraone.

Per riconoscenza, è la risposta che danno i maestri, non soltanto da parte di Moshè e di D-o stesso, che lo chiamerà sempre con questo nome, ma anche dell’intero popolo ebraico e delle generazioni successive. Una testimonianza di gratitudine nei confronti di una donna goyà (non ebrea) che ha messo a repentaglio la vita sfidando l’autorità del proprio padre e sovrano per salvare colui che avrebbe guidato la liberazione degli ebrei dalla schiavitù. Sentimento messo ancor più in rilievo dalla contrapposizione con quanto espresso nelle prime righe della parashà dove è scritto: «E sorse sull’Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Yossèf» (Shemòt, 1-8) a rimarcare l’irriconoscenza del faraone per quanto il vicerè aveva fatto salvando il suo regno dalla carestia ed, anzi, rendendolo ancora più potente.

Concetto, questo della gratitudine, che a ben vedere è radicato profondamente nel DNA di un ebreo. Basti pensare che l’appellativo stesso di yehudìm è fortemente intriso della parola todà (grazie). È scritto infatti nella parashà di Vayetzè (Bereshìt 29-35) che quando Leà concepì il suo terzo figlio lo chiamò Yehudà «per ringraziare (odè) D-o».

E in effetti tutta la vita di un ebreo è costellata da azioni e sentimenti incentrate sulla riconoscenza. A cominciare dalle benedizioni da recitare prima di godere di un alimento o di un bene fino ai salmi e le formule inserite nella liturgia così fitte di lodi ed espressioni di ringraziamento (tra le diciannove benedizioni dell’Amidà – il momento centrale delle preghiere quotidiane che nel Talmud coincide con il termine stesso di tefillà – l’unica con la quale non si esce d’obbligo limitandosi ad ascoltare il khazan (cantore) durante la ripetizione è proprio Modìm, quella che apre l’ultima parte dedicata alla gratitudine nei confronti di H.). Per non parlare poi dell’osservanza dello Shabbat, in cui settimanalmente ogni ebreo si astiene da ogni opera per ricordare e ringraziare per il dono della creazione, o del rispetto dovuto ai propri genitori in segno di gratitudine per ciò che hanno fatto per noi ed ai nostri insegnanti per ciò che ci hanno trasmesso.

Sentimento di gratitudine che non può fermarsi soltanto alla riconoscenza verso D-o per ciò che si ha. Yossef nell’ultima parashà del libro di Bereshit, quella della scorsa settimana che proprio su questo argomento si lega idealmente a Shemòt, tranquillizza i propri fratelli preoccupati di una possibile vendetta ribadendo che il loro comportamento che ha condotto alla sua vendita alla fine è stato funzionale ad esaudire i piani di H. quasi ringraziandoli per questo (Vayekhì, 50-19). Legato allo stesso concetto, un celebre midrash racconta di un uomo morso da un asino che quando si precipita al fiume per sciacquare la ferita s’imbatte in un bambino che sta annegando e ai ringraziamenti dei genitori dopo averlo salvato risponde: «Non ringraziate me ma l’asino che mi ha morso».  Gam zu letovà, tutto è per il bene, recita una massima ebraica a significare che i disegni divini ci sono ignoti e che dobbiamo avere fiducia che tutto quanto ci accade abbia una motivazione superiore finalizzata al nostro bene futuro.

Idea, a rifletterci un po’, legata anche al concetto di tzedakkà che, con l’assunto che la beneficienza non sia un atto di generosità ma di equità (il termine in ebraico riveste al tempo stesso il significato di giustizia e di carità), non fa che ribadire che ciò che possediamo ci è stato donato da D-o al quale per questo dobbiamo essere riconoscenti ogni giorno (a questo proposito i maestri insegnano che quanto da noi dovuto in beneficienza se non viene donato in questo mondo ci verrà tolto in quello futuro).      

Sentimento di gratitudine che non può fermarsi soltanto alla riconoscenza verso D-o per ciò che si ha. Yossef nell’ultima parashà del libro di Bereshit, quella della scorsa settimana che proprio su questo argomento si lega idealmente a Shemòt (non a caso comincia con una congiunzione: “E questi sono i nomi dei figli d’Israel…”), tranquillizza i propri fratelli preoccupati di una possibile vendetta ribadendo che il loro comportamento che ha condotto alla sua vendita alla fine è stato funzionale ad esaudire i piani di H. quasi ringraziandoli per questo (Vayekhì, 50-19). Legato allo stesso concetto, un celebre midrash racconta di un uomo morso da un asino che quando si precipita al fiume per sciacquare la ferita s’imbatte in un bambino che sta annegando e ai ringraziamenti dei genitori dopo averlo salvato risponde: «Non ringraziate me ma l’asino che mi ha morso».  E del resto anche in questa parashà quando le figlie di Itrò riferiscono al padre di essere state salvate presso il pozzo da Moshè lo definiscono “un egiziano”. I commentatori fanno notare che era ormai trascorso molto tempo da quando Moshè era fuggito dall’Egitto e certamente non doveva avere più sembianze da egiziano. Perché allora definirlo così? Proprio a suggerire che Moshè era lì per merito dell’esilio forzato in seguito dell’uccisione del soldato egiziano.  Gam zu letovà (tutto è per il bene), recita una massima ebraica, perché i disegni divini ci sono ignoti e dobbiamo avere fiducia che tutto quanto ci accade abbia una motivazione superiore finalizzata al nostro bene.

Idea, a rifletterci un po’, legata anche al concetto di tzedakkà che, con l’assunto che la beneficienza non sia un atto di generosità ma di equità (il termine in ebraico riveste al tempo stesso il significato di giustizia e di carità), non fa che ribadire che ciò che possediamo ci è stato donato da D-o al quale per questo dobbiamo essere riconoscenti ogni giorno (a questo proposito i maestri insegnano che quanto da noi dovuto in beneficienza se non viene donato in questo mondo ci verrà tolto in quello futuro).      

Il Rebbe di Lubavitch sempre riguardo alla parashà di questa settimana notava il simbolismo racchiuso nell’ordine del faraone di annegare i neonati ebrei nel Nilo (che per gli egiziani era una divinità). Secondo il Rebbe è come se in questo passo la Torà ci stia suggerendo come il “faraone” che è in noi, il nostro ietzer harà (l’istinto al male), ci ordini di introdurre i nostri figli, fin dalla tenera età, nel mondo dell’idolatria moderna. Desiderando per loro e preoccupandoci di indirizzarli verso il benessere economico, il successo e la carriera li alleviamo a cullare l’idea di avere degli obiettivi da raggiungere, un “punto d’arrivo”, invece di pensare che benessere e successo debbano invece essere dei mezzi per dei fini più profondi. Nei Pirquè Avòt (Le massime dei padri) è scritto: Questo mondo somiglia ad un’anticamera della vita futura. Preparati nell’anticamera, per essere in grado di entrare nella sala del banchetto (IV,21).

La kabalà insegna che nei termini ‘asià (il mondo fisico per propria natura impermanente, nel quale tutto è in continua trasformazione) e safà (linguaggio) il valore numerico coincide (385) a dimostrazione che nel mondo fisico tutto viene trasformato dando alla realtà fisica e materiale l’uso del linguaggio e la capacità di dare dei nomi (vedi Bereshit, 2-20). Ma 385 è anche lo stesso valore numerico di shekhinà (la presenza divina immanente) come a dire che la traccia di H. imprigionata all’interno di qualsiasi aspetto della creazione viene liberata attraverso l’attenzione tanto al proprio comportamento quanto a come ci si esprime.  

Personalmente, in quest’epoca di sublimazione dell’ostentazione di sé e in cui i centometristi della corsa a ciò che non si ha stabiliscono ogni giorno nuovi record di vacuità, rivendico con orgoglio che a far parte dei valori fondanti di un ebreo, di fronte a qualsiasi aspetto della vita, anche il più insignificante, ci sia il tenere nel giusto conto il valore di un “grazie”. Che non sia soltanto un sentimento vuoto indossato per specchiarsi davanti alla propria coscienza avvolti in mantello di virtù. Ma che si inserisca all’interno di uno stile di vita fatto di doveri e rinunce, coerente con i propri valori. Invece di accorgerci di chi siamo, da dove veniamo e dove ci proponiamo di andare (Pirquè Avot, III,1) soltanto quando ciò a cui tenevamo lo abbiamo perduto.

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Periferia

Via Portuense. La stessa che percorro tutti i giorni senza fissare nulla con attenzione mentre inseguo, più delle macchine che mi precedono, pensieri e domande che mi pongo ogni volta che salgo in sella allo scooter.

È così anche oggi. Soltanto che stamattina non giro al solito incrocio ma tiro dritto per andare a ritirare il risultato di un’analisi in ospedale. Finché ad un semaforo di via del Trullo improvvisamente mi risveglio. Qualcosa ha catturato la mia attenzione. I colori vivaci del muro cieco di un casolare basso. Al centro l’immagine di un pappagallo con una penna a piuma in mano. Di lato delle scritte. Prima di ripartire porto via con me giusto un paio di frasi: « La strada da bambino partiva da sotto casa e finiva dove ancora sentivo mia madre dalla finestra »,  « Oggi dipingo, scrivo e sento di poter cambiare quelle strade facendo parlare il cuore.  Sono e rimango uno qualunque…». Sul momento non saprei definire cosa esattamente mi abbia colpito. Il fatto è che, guardandomi intorno, mi accorgo che ci sono altri murales, altre scritte coloratissime che mi danno la sensazione di essere piombato un po’ in un Barrio di Caracas, un po’ nel Bronx.  

  Scatta il verde. Il clacson dell’auto dietro di me mi ricorda che non tutti in quel momento hanno deciso di prendersi una pausa per rivolgere lo sguardo a qualcosa che non sia l’orologio o lo smartphone. Riparto, questa volta con i miei occhi intenti a cercare, pronti e curiosi, come facevano da bambino alla caccia di indizi in una caccia al tesoro.

Comincio ad inseguire le immagini dipinte sui muri delle case, tra i negozi, sulla facciata di fronte all’ingresso del mercato e mi dico che quello di questi artisti di strada è davvero un modo sano di pensare la periferia. Qualcosa che ha a che fare con la fierezza di sentirsi “altro” che non sia in competizione con il prestigio del centro storico o con l’eleganza dei quartieri residenziali. Che intende l’essere decentrati nel senso di riappropriazione dei propri spazi e non di emarginazione. Dove la città è casa e non contenitore, espressione di un vivere a passo d’uomo che appartiene ad una cultura di paese più che a quella urbana.

Mi viene in mente il quartiere di Tor de’ Cenci e il vecchio ristorante di cucina romanesca nel quale andavo a mangiare da piccolo la domenica con tutta la famiglia riunita. Dopo pranzo con i miei cugini uscivo a giocare a pallone per le stradine pressoché deserte. Le serrande dei negozi chiusi trasformate in porte, i blocchetti di tufo dei muri di cinta di qualche giardino usati come sponde per i dribbling.

Accosto e mi metto a fare qualche foto.

Si, lo confesso. Mi sento un po’ Proust nel momento in cui avverto l’odore della brace ed il sapore della panzanella risvegliarsi dentro di me. E perché no, visto che stiamo lì a giocare, anche un po’ Pasolini mentre esalto davanti a me stesso la poesia di questo spaccato di vita di quartiere sullo sfondo di un variopinto abbracciarsi di immagini ed edilizia popolare.

Perso in questo autocompiaciuto peana alla mia sensibilità artistica torno allo scooter e rifletto sul fatto che in fondo si potrebbe auspicare lo stesso anche per quel che accade dentro di noi. Dichiararsi fuori gara nella corsa ad inseguimento di followers e likes. Sentirsi alternativi alla idolatria di sé. Essere immuni all’epidemia di collezionare cose e persone da esibire come alla parata del due giugno.

Rimetto in moto e mentre, dopo poche centinaia di metri, mi ritrovo di colpo nuovamente in mezzo al solito skyline in bianco e nero, la domanda che mi attraversa la mente è se il prossimo Shabbat, nel redigere il settimanale stato di avanzamento dei lavori di ristrutturazione di me stesso, troverò dipinte con le tinte dell’autostima e della serenità le facciate della mia anima.

Se sarò riuscito a traslocare in una periferia interiore lontana da monumenti di materialità e piazze affollate di gratificazioni. A percorrere con fierezza e con timore le tortuose stradine delle mitzvòt. E salendo per delle scale di doveri e rinunce entrare in una piccola casa dalle grandi finestre in cui entri una luce calda di consapevolezza e compiuta libertà.

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