*Rielaborato da argomenti trattati da Eithan Della Rocca e rav Roberto Della Rocca.
Questo Shabbat si inizia a leggere il libro di Shemòt che in italiano viene indicato come l’Esodo (perché l’argomento principale riguarda l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto) ma che in realtà letteralmente si dovrebbe tradurre con “Nomi”. Inizia, infatti, con il lungo elenco delle settanta persone (sessantanove in realtà) scese in Egitto insieme a Ya’akov.
All’interno della parashà di questa settimana troviamo però anche un altro riferimento alla questione dei nomi dal momento che i maestri si interrogano su quale nome ebraico fosse stato dato a Moshè nei suoi primi tre mesi di vita prima di essere affidato alle acque. Questi per tradizione sono dieci, tra i quali Yekutièl (dalla radice kavè, sperare) e Tuvyà (Tobia) in quanto sua madre quando nacque vide che era (tov) buono (a questo proposito Rashì in un famoso e poetico commento si richiama alla prima volta che compare la parola tov nella Torà – in Bereshit 1-4: «E D-o vide che la luce era cosa buona» – affermando che alla nascita di Moshè la casa si riempì di luce). Nasce allora la domanda sul perché il personaggio principale di grandissima parte della Torà (che non a caso viene spesso chiamata Torat Moshè, la bibbia di Mosè) con tanti nomi ebraici conservi proprio quello egiziano impostogli dalla madre adottiva, la figlia del faraone.
Per riconoscenza, è la risposta che danno i maestri, non soltanto da parte di Moshè e di D-o stesso, che lo chiamerà sempre con questo nome, ma anche dell’intero popolo ebraico e delle generazioni successive. Una testimonianza di gratitudine nei confronti di una donna goyà (non ebrea) che ha messo a repentaglio la vita sfidando l’autorità del proprio padre e sovrano per salvare colui che avrebbe guidato la liberazione degli ebrei dalla schiavitù. Sentimento messo ancor più in rilievo dalla contrapposizione con quanto espresso nelle prime righe della parashà dove è scritto: «E sorse sull’Egitto un nuovo re che non aveva conosciuto Yossèf» (Shemòt, 1-8) a rimarcare l’irriconoscenza del faraone per quanto il vicerè aveva fatto salvando il suo regno dalla carestia ed, anzi, rendendolo ancora più potente.
Concetto, questo della gratitudine, che a ben vedere è radicato profondamente nel DNA di un ebreo. Basti pensare che l’appellativo stesso di yehudìm è fortemente intriso della parola todà (grazie). È scritto infatti nella parashà di Vayetzè (Bereshìt 29-35) che quando Leà concepì il suo terzo figlio lo chiamò Yehudà «per ringraziare (odè) D-o».
E in effetti tutta la vita di un ebreo è costellata da azioni e sentimenti incentrate sulla riconoscenza. A cominciare dalle benedizioni da recitare prima di godere di un alimento o di un bene fino ai salmi e le formule inserite nella liturgia così fitte di lodi ed espressioni di ringraziamento (tra le diciannove benedizioni dell’Amidà – il momento centrale delle preghiere quotidiane che nel Talmud coincide con il termine stesso di tefillà – l’unica con la quale non si esce d’obbligo limitandosi ad ascoltare il khazan (cantore) durante la ripetizione è proprio Modìm, quella che apre l’ultima parte dedicata alla gratitudine nei confronti di H.). Per non parlare poi dell’osservanza dello Shabbat, in cui settimanalmente ogni ebreo si astiene da ogni opera per ricordare e ringraziare per il dono della creazione, o del rispetto dovuto ai propri genitori in segno di gratitudine per ciò che hanno fatto per noi ed ai nostri insegnanti per ciò che ci hanno trasmesso.
Sentimento di gratitudine che non può fermarsi soltanto alla riconoscenza verso D-o per ciò che si ha. Yossef nell’ultima parashà del libro di Bereshit, quella della scorsa settimana che proprio su questo argomento si lega idealmente a Shemòt, tranquillizza i propri fratelli preoccupati di una possibile vendetta ribadendo che il loro comportamento che ha condotto alla sua vendita alla fine è stato funzionale ad esaudire i piani di H. quasi ringraziandoli per questo (Vayekhì, 50-19). Legato allo stesso concetto, un celebre midrash racconta di un uomo morso da un asino che quando si precipita al fiume per sciacquare la ferita s’imbatte in un bambino che sta annegando e ai ringraziamenti dei genitori dopo averlo salvato risponde: «Non ringraziate me ma l’asino che mi ha morso». Gam zu letovà, tutto è per il bene, recita una massima ebraica a significare che i disegni divini ci sono ignoti e che dobbiamo avere fiducia che tutto quanto ci accade abbia una motivazione superiore finalizzata al nostro bene futuro.
Idea, a rifletterci un po’, legata anche al concetto di tzedakkà che, con l’assunto che la beneficienza non sia un atto di generosità ma di equità (il termine in ebraico riveste al tempo stesso il significato di giustizia e di carità), non fa che ribadire che ciò che possediamo ci è stato donato da D-o al quale per questo dobbiamo essere riconoscenti ogni giorno (a questo proposito i maestri insegnano che quanto da noi dovuto in beneficienza se non viene donato in questo mondo ci verrà tolto in quello futuro).
Sentimento di gratitudine che non può fermarsi soltanto alla riconoscenza verso D-o per ciò che si ha. Yossef nell’ultima parashà del libro di Bereshit, quella della scorsa settimana che proprio su questo argomento si lega idealmente a Shemòt (non a caso comincia con una congiunzione: “E questi sono i nomi dei figli d’Israel…”), tranquillizza i propri fratelli preoccupati di una possibile vendetta ribadendo che il loro comportamento che ha condotto alla sua vendita alla fine è stato funzionale ad esaudire i piani di H. quasi ringraziandoli per questo (Vayekhì, 50-19). Legato allo stesso concetto, un celebre midrash racconta di un uomo morso da un asino che quando si precipita al fiume per sciacquare la ferita s’imbatte in un bambino che sta annegando e ai ringraziamenti dei genitori dopo averlo salvato risponde: «Non ringraziate me ma l’asino che mi ha morso». E del resto anche in questa parashà quando le figlie di Itrò riferiscono al padre di essere state salvate presso il pozzo da Moshè lo definiscono “un egiziano”. I commentatori fanno notare che era ormai trascorso molto tempo da quando Moshè era fuggito dall’Egitto e certamente non doveva avere più sembianze da egiziano. Perché allora definirlo così? Proprio a suggerire che Moshè era lì per merito dell’esilio forzato in seguito dell’uccisione del soldato egiziano. Gam zu letovà (tutto è per il bene), recita una massima ebraica, perché i disegni divini ci sono ignoti e dobbiamo avere fiducia che tutto quanto ci accade abbia una motivazione superiore finalizzata al nostro bene.
Idea, a rifletterci un po’, legata anche al concetto di tzedakkà che, con l’assunto che la beneficienza non sia un atto di generosità ma di equità (il termine in ebraico riveste al tempo stesso il significato di giustizia e di carità), non fa che ribadire che ciò che possediamo ci è stato donato da D-o al quale per questo dobbiamo essere riconoscenti ogni giorno (a questo proposito i maestri insegnano che quanto da noi dovuto in beneficienza se non viene donato in questo mondo ci verrà tolto in quello futuro).
Il Rebbe di Lubavitch sempre riguardo alla parashà di questa settimana notava il simbolismo racchiuso nell’ordine del faraone di annegare i neonati ebrei nel Nilo (che per gli egiziani era una divinità). Secondo il Rebbe è come se in questo passo la Torà ci stia suggerendo come il “faraone” che è in noi, il nostro ietzer harà (l’istinto al male), ci ordini di introdurre i nostri figli, fin dalla tenera età, nel mondo dell’idolatria moderna. Desiderando per loro e preoccupandoci di indirizzarli verso il benessere economico, il successo e la carriera li alleviamo a cullare l’idea di avere degli obiettivi da raggiungere, un “punto d’arrivo”, invece di pensare che benessere e successo debbano invece essere dei mezzi per dei fini più profondi. Nei Pirquè Avòt (Le massime dei padri) è scritto: Questo mondo somiglia ad un’anticamera della vita futura. Preparati nell’anticamera, per essere in grado di entrare nella sala del banchetto (IV,21).
La kabalà insegna che nei termini ‘asià (il mondo fisico per propria natura impermanente, nel quale tutto è in continua trasformazione) e safà (linguaggio) il valore numerico coincide (385) a dimostrazione che nel mondo fisico tutto viene trasformato dando alla realtà fisica e materiale l’uso del linguaggio e la capacità di dare dei nomi (vedi Bereshit, 2-20). Ma 385 è anche lo stesso valore numerico di shekhinà (la presenza divina immanente) come a dire che la traccia di H. imprigionata all’interno di qualsiasi aspetto della creazione viene liberata attraverso l’attenzione tanto al proprio comportamento quanto a come ci si esprime.
Personalmente, in quest’epoca di sublimazione dell’ostentazione di sé e in cui i centometristi della corsa a ciò che non si ha stabiliscono ogni giorno nuovi record di vacuità, rivendico con orgoglio che a far parte dei valori fondanti di un ebreo, di fronte a qualsiasi aspetto della vita, anche il più insignificante, ci sia il tenere nel giusto conto il valore di un “grazie”. Che non sia soltanto un sentimento vuoto indossato per specchiarsi davanti alla propria coscienza avvolti in mantello di virtù. Ma che si inserisca all’interno di uno stile di vita fatto di doveri e rinunce, coerente con i propri valori. Invece di accorgerci di chi siamo, da dove veniamo e dove ci proponiamo di andare (Pirquè Avot, III,1) soltanto quando ciò a cui tenevamo lo abbiamo perduto.
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