Concentrato di automobile

In mezzo al grande soggiorno vuoto di casa mia, tra un divano di pelle logoro e uno stereo vetusto che suona dischi di blues graffiati, c’è un cubo di metallo schiacciato. È rosso con una striscia bianca, e quando la luce del sole lo colpisce dalla giusta angolazione, il suo riflesso può accecare. Non è un tavolino, anche se spesso ci metto sopra delle cose, e nessuno entra in casa mia senza fare domande al riguardo, lo ogni volta do una risposta diversa, a seconda dell’umore e anche di chi chiede.

Talvolta dico “è una cosa di mio padre”, altre che è un grosso ricordo, altre ancora che è una Mustang del ’68 decappottabile” o “una vendetta rosso brillante”. Capita persino che dica che è l’ancora che trattiene questa casa, senza di lei sarebbe già tutto volato via da un pezzo”. A volte mi limito a rispondere che è un’opera d’arte. Gli uomini cercano immancabilmente di sollevarlo. Le donne, in genere, lo sfiorano con prudenza con il dorso della mano, come se controllassero la febbre a un bambino. Se qualcuna di loro lo tocca con il palmo, lo accarezza letteralmente e dice qualcosa del tipo “è fresco” o “è piacevole, è segno che devo tentare di portarla a letto.

Il fatto che la gente si interessi a questo pezzo di metallo schiacciato a me fa piacere. Sia perché da un lato è rassicurante sapere che c’è almeno una cosa prevedibile in questo mondo caotico, sia perché mi risparmia un sacco di risposte a domande del tipo “Che lavoro fai?” o “Come ti sei fatto questa cicatrice?” oppure “Quanti anni hai?”. Io lavoro alla mensa di una scuola superiore intitolata ad Abraham Lincoln, la cicatrice me la sono fatta in un incidente d’auto e ho 46 anni. Nessuna di queste informazioni è segreta, ma preferisco comunque che mi si chieda del cubo schiacciato perché da lì posso arrivare a conversare di qualsiasi argomento. Di Robert Kennedy, che è stato assassinato nell’anno in cui è stata prodotta la Mustang schiacciata nel salotto, di arti plastiche di scadente qualità, per non parlare di tutto quanto sta nel mezzo: di mio padre, per esempio, che portava me e mio fratello a fare un giro con la Mustang quando veniva a trovarci in collegio. O del fatto che ci sono volute otto persone per caricare il cubo sul mio pick-up e gli ammortizzatori hanno ceduto. O di mia madre, che è morta quand’ero piccolissimo perché mio padre guidava ubriaco un’altra macchina, più grigia e meno bella della Mustang, che ha comprato poi, dopo l’incidente, con i soldi dell’assicurazione. Tutto dipende da dove voglio arrivare. Una conversazione è come una galleria che si scava pazientemente con un cucchiaio nel pavimento della prigione. Lo scopo è uscire dal luogo dove ti trovi e quando scavi hai sempre un obiettivo da raggiungere: suscitare un sentimento di empatia, che magari ti porterà a una scopata, di complicità maschile che ben si abbina con una bottiglia di whisky, di fiducia nel padrone di casa che viene a chiederti l’affitto. Ogni galleria ha una sua direzione ma il cucchiaio, almeno per me, è sempre lo stesso: la Mustang bianca e rossa decappottabile del ’68, pressata alle dimensioni di un minibar al centro del mio salotto. 

Janet lavora con me alla mensa. Sta sempre alla cassa perché il gestore si fida di lei ma anche lì è comunque abbastanza vicina al cibo per emanare dai capelli un odore di minestrone. È single e madre di due gemelli. È una brava mamma, proprio come mi piace pensare che fosse la mia. Quando la vedo con i suoi figli a volte cerco di immaginare cosa sarebbe successo se in quell’incidente di quaranta e rotti anni fa fosse morto papà, e mia madre ne fosse uscita viva. Che cosa ne sarebbe stato di me e di mio fratello oggi? Saremmo diversi o anche così ci ritroveremmo io nella cucina di una mensa e lui nella sezione di massima sicurezza di una prigione del New Jersey? Quello che è certo è che in quel caso non avrei la Mustang pressata in salotto.

Janet è forse la prima ragazza che ha dormito a casa mia e non ha fatto domande sul cubo rosso. Dopo il sesso le preparo un caffè freddo e mentre lo beviamo cerco di introdurre il discorso della Mustang pressata. Come prima cosa ci appoggio sopra il bicchiere del caffè con i cubetti di ghiaccio e aspetto che lei mi faccia una domanda, ma quando vedo che lo stratagemma non funziona cerco un modo per incuriosirla. Sono un po’ indeciso su quale storia raccontare: quella che all’inizio il cubo puzzava e io già pensavo che ci fosse rimasta dentro la carogna di un gatto, o quella dei ladri che si sono introdotti in casa mia e, non trovando niente, hanno cercato di sollevarlo e per lo sforzo uno di loro si è rotto una vertebra. Alla fine decido per la storia di mio padre. Qualcosa di meno buffo, di più intimo. Racconto che io avevo cercato papà per tutto l’Ohio e poco dopo avere scoperto che era morto, la sua ultima donna mi aveva detto che avevano appena portato la Mustang da uno sfasciacarrozze. Ero arrivato con cinque minuti di ritardo e perciò è questa l’unica cosa che mi è rimasta di mio padre: non un modello classico e figo di automobile, ma un blocco di metallo pressato in salotto.

“Gli volevi bene?” mi domanda Janet intingendo il dito nel caffè freddo e succhiandolo. Qualcosa nel modo in cui lo fa, chissà perché, mi ripugna. Penso freneticamente a come evitare di rispondere. Non provavo dei gran sentimenti nei confronti di mio padre e quei pochi che avevo non erano positivi. Parlarne ora, perciò, mentre stiamo bevendo un caffè freddo, nudi, non mi sembra né divertente né eccitante. Le propongo quindi di venire da me con i gemelli il prossimo sabato e di fermarsi a dormire. “Sei sicuro?” chiede lei. Janet vive con sua madre e per lei non sarebbe un problema venire da sola. “Certo,” rispondo, “sarà divertente.” Lei non lo dà a vedere ma sembra contenta. E invece di parlare di tutte le stronzate che io e mio fratello abbiamo dovuto sopportare prima che mio padre facesse a tutti il favore di sparire dalla nostra vita, io e Janet scopiamo in salotto. Lei si china sulla Mustang e io la penetro da dietro.

I gemelli di Janet si chiamano David e Jonathan. È stato il padre a decidere i nomi, pensava che fosse una trovata divertente. Janet non impazziva all’idea, le sembrava una cosa un po’ gay, ma ha accettato senza fare discussioni. Dopo essersi portata in pancia i gemelli per nove mesi pensava che sarebbe stato giusto dare la sensazione al suo uomo che i bambini fossero anche un po’ suoi. Non che questo l’abbia aiutata. Da più di cinque anni non ha più notizie del padre.

I piccoli hanno sette anni, e sono carinissimi. Non appena arrivano esplorano il giardino e scoprono l’albero storto. Provano ad arrampicarsi e cadono. Ritentano e ricadono. Si ammaccano, si graffiano ma non piangono. Mi piacciono i bambini che non piangono. Anch’io ero così. Poi giochiamo un po’ a frisbee in giardino, ma Janet dice che fa caldo ed è meglio se entriamo a bere qualcosa. Io preparo una limonata e metto i bicchieri sulla Mustang. I gemelli ringraziano prima di assaggiarla, si vede che sono beneducati. David mi chiede della Mustang e gli dico che è un concentrato di automobile che tengo in salotto per le emergenze, nel caso il mio pick-up si guastasse. “E se dovesse guastarsi cosa faresti?” domanda David con gli occhioni sgranati. “Ci verserò sopra abbastanza acqua perché si sciolga e ridiventi una macchina così che io possa andare al lavoro.” “E non sarà bagnata?” si incuriosisce Jonathan, che ascolta con la fronte aggrottata. “Un pochino,” dico io, “ma è meglio un’automobile bagnata cha andare a piedi.”

Quella sera racconto loro una storia prima di metterli a letto. Janet si è dimenticata di portare i loro libri e così io me ne invento una. E la storia di due gemelli che, presi singolarmente, sono bambini normali, ma non appena sono insieme acquistano superpoteri. I piccoli sono entusiasti, vanno matti per i superpoteri. Dopo che si sono addormentati, io e Janet fumiamo qualcosa che ci ha venduto Ross, il bidello della scuola. È roba buona. Scopiamo e ridiamo tutta la notte, ridiamo e scopiamo.

Ci svegliamo solo a mezzogiorno. O meglio, Janet si sveglia. Io apro gli occhi solo quando sento le sue urla. Scendo vedo il salotto completamente allagato. David e Jonathan sono vicini alla Mustang con il tubo dell’acqua che hanno portato dal giardino. Janet urla loro di chiudere l’acqua e David corre subito al rubinetto. Jonathan mi vede accanto alle scale. “Guarda,” dice, “è rotta. Ci abbiamo già versato sopra un sacco di acqua e provato a mescolare ma non funziona.” Il tappeto rosso del salotto è sommerso dall’acqua e anche i vecchi dischi. Lo stereo sprigiona bolle come un animale che sta per annegare. Sono solo oggetti, dico a me stesso. Roba che non mi serve. “Ti hanno imbrogliato,” sentenzia Jonathan continuando ad agitare il tubo, “ti hanno venduto una macchina rotta.”

Janet avrebbe dovuto evitare di dargli uno schiaffo, e nemmeno io mi sono comportato bene. Non avrei dovuto intromettermi, non sono figli miei. E di certo non avrei dovuto reagire come ho reagito. Lei è una brava madre e si è fatta prendere dall’agitazione solo a causa di quella strana situazione. E pure io mi sono innervosito. Solo se lei riuscirà a capire come mai le è sfuggito quello schiaffo, senza cattive intenzioni, potrà comprendere perché le ho dato uno spintone. L’ultima cosa che volevo era farle del male, cercavo solo di allontanarla dai gemelli finché non si fosse calmata. E se non ci fosse stata tutta quell’acqua sul pavimento non sarebbe scivolata.

Le ho già lasciato cinque messaggi in segreteria, ma non mi ha richiamato. So che sta benissimo perché me l’ha detto sua madre. Ha perso solo un po’ di sangue e le hanno dato qualche punto. Le hanno anche fatto una antitetanica perché la Mustang era arrugginita. Dopo che lei se n’è andata con i bambini ero preoccupato e l’ho raggiunta a casa sua. Sua madre è uscita e mi ha detto che Janet non voleva più veder mi e, dopo aver tossito a lungo a causa delle sigarette, ha aggiunto che quel “non voleva più vedermi” non era poi così definitivo come sembrava. Se le avessi dato abbastanza tempo e lasciato abbastanza spazio di certo l’arrabbiatura le sarebbe passata.

Domani, al lavoro, le porterò un regalino: un fermaglio per i capelli, o un paio di calzini. Lei va matta per quelle strane calze con grandi pois rossi, o con le orecchie all’ingiù come quelle di un cane. Se non vorrà parlarmi lascerò il regalo avvolto nella carta vicino alla cassa e andrò in cucina. Alla fine mi perdonerà e, quando le darò di nuovo un passaggio a casa, le racconterò tutta la storia della Mustang e di mio padre. Di tutto quello che lui ha fatto a me e a mio fratello e di come noi lo odiavamo. E di come Don, quando è andato in prigione, mi ha chiesto di ritrovarlo e di rinfacciargli che razza di padre di merda era stato. Le racconterò di quella notte allo sfasciacarrozze. Di come ho goduto nel vedere l’amata automobile di papà ridursi in niente. Le racconterò tutto, e forse allora lei potrà capire. O quasi tutto. Non le dirò che quando ho portato la Mustang a rottamare a Cleveland, il corpo di mio padre era ancora caldo nel bagagliaio. E dopo che lei mi avrà perdonato tornerà da me con i bambini e io e loro porteremo il tubo dell’acqua in salotto, chiuderemo le porte, le sigilleremo con degli stracci e poi apriremo completamente il rubinetto arrugginito in cortile e non lo chiuderemo fino a che la grande stanza vuota non si sarà trasformata in un mare.

Etgar Keret – Un intoppo ai limiti della galassia

Heimlich e Unheimlich

Tuttavia, l’indomani mattina, conclusa la telefonata a casa per parlare con i bambini, rintracciai il testo di Freud, che adesso mi sembrava cruciale per il mio romanzo sull’Hilton: non avrei potuto iniziare a scrivere senza consultarlo. Distesa sul letto, cominciai a leggere l’etimologia dell’aggettivo tedesco, che deriva da Heim, « casa », per cui heimlich significa « familiare, natio, attinente alla casa ». Freud aveva composto il suo saggio in risposta all’opera di Ernst Jentsch, il quale definiva il concetto dell’Unheimliche come l’opposto di heimlich: come l’effetto dell’incontro con il nuovo e il poco familiare, che provoca un senso d’incertezza, l’impressione di non sapere « dove ci si trova ». Ma se heimlich può voler dire « familiare » e « domestico », il suo significato secondario, sottolinea Freud, racchiude in sé sia la nozione di entità « nascoste » e « sottratte alla vista », sia l’idea di « scoprire o svelare ciò che è segreto » e persino « ciò che è rimosso dalla coscienza » (dizionario dei fratelli Grimm), per cui con la progressiva scoperta delle sue sfumature semantiche, la parola heimlich finisce per coincidere con il suo contrario, unheimlich, termine riferito dal filosofo tedesco Schelling « a tutto ciò che potrebbe restare… segreto, nascosto, e che è invece affiorato ».

Tra le circostanze in grado di suscitare sensazioni perturbanti, la prima citata da Freud è l’idea del doppio. Come se mi fossi data una manata sulla fronte, ricordai quanto mi era successo sei mesi prima, quando entrando in casa avevo avuto la certezza di esserci già: l’esperienza che aveva messo in moto la catena di pensieri da cui ero stata condotta fin lì, all’Hilton. Tra gli altri esempi forniti da Freud ci sono il ritorno involontario a una stessa situazione e la ripetizione di un fenomeno casuale che crea un senso di predestinazione o di inesorabilità. Il fattore comune a tutti questi casi è la centralità della reiterazione e, arrivando al cuore del suo saggio, Freud giunge infine a proporre l’Unheimliche come una particolare categoria d’inquietudine innescata da un elemento rimosso che torna a manifestarsi. Negli annali dell’etimologia, in cui heimlich e unheimlich si rivelano una cosa sola, troviamo il segreto di questo particolarissimo genere di ansia, ci spiega Freud, un’ansia che in fin dei conti non nasce dall’incontro con una realtà nuova ed estranea, ma piuttosto dall’imbattersi in un fattore familiare e antico da cui la mente si è estraniata grazie al processo della rimozione. Una realtà che avrebbe dovuto essere mantenuta nascosta, e che invece è emersa alla luce. (…)

Heim, casa. Sì, il luogo dove siamo sempre stati, per quanto ignoto alla coscienza, può essere soltanto definito così, non è vero? Eppure, da un altro punto di vista, la casa non rivela forse il suo valore unicamente quando la lasciamo, perché è solo con la distanza, solo con il ritorno, che siamo in grado di riconoscerla come il posto che custodisce il nostro vero io? 

O magari stavo rivolgendomi alla lingua sbagliata nella mia ricerca di una risposta. In ebraico la parola per indicare il mondo è olam, e mi venne in mente che mio padre una volta mi aveva detto che deriva dalla radice alam, il cui significato è « nascondere » o « occultare ». Nella disamina sul punto in cui heimlich e unheimlich si dissolvono l’uno nell’altro per illuminare una forma di inquietudine (un elemento che avrebbe dovuto restare sommerso, ma che nonostante ciò è venuto a galla), Freud ha quasi sfiorato la saggezza dei suoi antenati ebrei. Alla fine però, bloccato dalla lingua tedesca e dalle angosce della mentalità moderna, non ha raggiunto il radicalismo dei suoi progenitori. Per gli antichi ebrei, il mondo era sempre nascosto e insieme rivelato.

Nicole Krauss – Selva Oscura – pagg. 85/88

Shabbat e mitzvòt per S.Y. Agnon

Che bello che è l’arrivo del Sabato al Muro del Pianto! Le pietre sante, la cui santità ci fa luce nel buio del nostro esilio, sono ancora più sante in questo giorno, e tutto Israele è più santo e si santifica in esso e nella memoria e nell’osservanza, in attesa della redenzione. O a memoria o con il formulario, Isacco pregava. A volte si lasciava commuovere dalle semplici e tuttavia toccanti melodie dei modernisti, a volte veniva travolto dalle vibranti, accalorate preghiere dei pietisti. Qualunque fosse la melodia che ascoltava, dentro di sé sentiva la propria, insieme a note sparse delle litanie che gli giungevano dalla sua città natale. In quel trasporto di cuore, Isacco scordava le proprie colpe e si sentiva come un bambino immacolato, candido come in quei primi tempi della sa vita, fanciullo della sua città – con un aggiunta di santità attinta da quella di Gerusalemme. Che bella che è la luce della misericordia, per l’anima che l’anela.

Ma la misericordia non è durevole, giacché questo dono si svela solo a tratti, a maggior ragione per chi non è poi così degno che la luce della suddetta lo ammanti costantemente. Per quanto ci si sforzi di mettere il nostro Isacco in buona luce, dobbiamo ammettere che non era migliore degli altri nostri compari. Che altro aggiungere al proposito? Tutti noi cerchiamo il meglio, ma quel meglio che cerchiamo non è il vero bene. Tutto ciò esige però una spiegazione, che si farà del nostro meglio per fornire al lettore.

Quando da giovani studiavamo la Torah, sapevamo che tutto ciò che vi sta scritto esiste per l’eternità. E l’unico desiderio di tutti noi, del nostro popolo, era quello di rispettare i precetti e compiere opere buone, così come tutto ciò che sta scritto nella Torah. In seguito, però, ci sono cascati per le mani altri libri, dove abbiamo scovato cose che nemmeno ci immaginavamo. Il dubbio si è infiltrato nella nostra coscienza. E quando siamo entrati nel territorio del dubbio, abbiamo cominciato a trascurare i precetti. Alcuni tuttavia li abbiamo mantenuti, per non fare arrabbiare i nostri genitori. Quando poi siamo saliti in Terra d’Israele, ritrovandoci liberi dal giogo paterno, abbiamo fatto che rigettare anche quello della Torah. Chi se ne è affrancato per ansia di libertà, chi pensando erroneamente che il Santo volesse da lui solo buon cuore e opere di misericordia. Alcuni pensatori del nostro tempo ci hanno dato manforte nell’errore, con le loro ricerche e i loro scritti, sostenendo che gran parte dei precetti non fossero altro che il frutto della condizione esilica. Sarebbe andata così: quando i nostri primi maestri, esiliati dalla nostra terra, cominciarono a temere che ci assimilassimo nelle genti, decisero di impartirci molti comandamenti, per tenerci separati dagli altri popoli. Infatti, finché Israele era rimasto sulla sua terra, che cosa avevano preteso i profeti, dalla gente? Un cuore buono e opere di misericordia. E così sarebbe stato di nuovo, quando fossimo tornati alla nostra terra. Adesso che ciò sta accadendo e che il pericolo di assimilazione ai gentili è passato, non ci sarebbe più bisogno dei precetti d’ordine pratico, come è detto nel Talmud: nel tempo a venire i precetti saranno aboliti. Più o meno in questo equivoco incorrono le belle anime di questo nostro tempo, cui andiamo dietro, senza renderci conto che i primi tempi ormai sono passati, ma il Messia ancora non è arrivato, e l’esilio c’è ancora. 

Queste idee governavano la generazione di Isacco. E anche lui, benché non fosse troppo preso dalle questioni intellettuali, si era sbarazzato della legge e del giogo dei precetti. Per questo motivo, la luce della misericordia divina svaniva appena la intravedeva, come quella lanterna che non avendo più pareti non riesce a mantenere viva la fiammella. (…)

S.Y. Agnon – Appena ieri – pagg. 328/329

Maestri

In “Crimini e misfatti” la lezione del giorno che Cliff impartisce alla nipote uscendo dal cinema è: « Non ascoltare i tuoi insegnanti, guardali e imparerai molto sulla vita che ti aspetta… »

Ecco, devo dire che fin da ragazzo anch’io i miei maestri, più che sui banchi di scuola, me li sono scelti tra gli autori che ho amato.

Da adolescente “Lamento di Portnoy” di Philip Roth e i lavori di Woody Allen mi hanno fornito la strada per rielaborare in senso critico – ma anche cinicamente sarcastico –  il rapporto con la cultura ebraica, la famiglia e tutto ciò che delle mie origini sentivo essere soffocante una volta intrapresa la strada della laicità.

A trent’anni, con Dostoevskij, sono stato folgorato dalle letture ricche di pensiero. Dalla capacità di concepire un’opera in cui l’intreccio narrativo fosse soprattutto un pretesto per approfondire questioni fondamentali riguardo alla società, alla fede, ai valori e all’introspezione psicologica.

Con Dickens ho scoperto la godibilità del British humor, il suo uso sapiente non come protagonista ma al servizio del racconto.

Di Tolstoj mi ha innamorato l’assoluta perfezione stilistica, la capacità impareggiabile di utilizzare un narratore esterno onnisciente eppure in nessun momento invasivo.

Kafka è stato un terremoto. La scoperta del surreale come superba arte di suggerire invece di narrare (anche superiore al mostrare…)

Con “La simmetria dei desideri” di Eskhol Nevo ho capito l’importanza della struttura in un romanzo. La capacità di tessere una tela all’oscuro del lettore per rivelarla soltanto nelle ultime pagine come se all’improvviso si tirassero dei fili e all’interno della bottiglia venisse su un veliero in miniatura, tanto perfetto quanto inaspettato.

“Il teatro di Sabbath” di Philiph Roth mi ha fatto capire che scrivere è spesso un’esperienza catartica. Che con il lettore non si può omettere né censurare nulla. E se si sceglie di affrontare fantasmi e lati oscuri della nostra mente allora bisogna mettersi a nudo completamente. Con l’onestà brutale di una seduta dal proprio analista.

“La trilogia di K” di Âgota Kristóf  è stata un tale pugno allo stomaco che ci ho messo un po’ per riprendermi. Una voce secca, lucida, netta. Quasi le parole fossero incise da un laser e le frasi ridotte all’osso e prive di aggettivi passaggi di un’equazione matematica. Un modo di narrare lontano anni luce dal mio e proprio per questo tanto più affascinante quanto irraggiungibile.

E infine S.Y. Agnon, forse l’incontro più sorprendente della mia carriera di lettore esigente. Ho sempre pensato che la percezione nei confronti dei libri che leggiamo non può mai essere assoluta ma dipende dal periodo della vita in cui li incontriamo. Madame Bovary, ad esempio, è stato un romanzo che ho letto troppo presto per poterlo davvero apprezzare (come mi ha fatto capire Antonella Lattanzi nel corso dei suoi seminari).

Ecco, aver conosciuto la prosa serafica di Agnon con la sua voce deferente intessuta di riferimenti alla liturgia e alla vita religiosa mi ha mostrato il contributo che può essere dato alla narrativa dalla cultura ebraica.  Che non è soltanto quello di fornire il bersaglio per le “freccette” lanciate dall’ebreo laico o dall’Yiddish humor. Ma che può comprendere i valori e gli insegnamenti desunti dall’opera dei Maestri con i quali mi approccio ogni giorno.  Insomma, da “Lamento di Portnoy” e Woody Allen un bella capriola…

Stili a confronto. Flaubert vs. Tolstoy: Il ballo

Tratto da: “Come scrivere un romanzo” di Antonella Lattanzi (Seminario del corso: COME SCRIVERE UNA GRANDE STORIA di Francesco Trento)

A poco più di vent’anni di distanza vengono pubblicati due romanzi con protagoniste due adultere (Madame Bovary nel 1856 e Anna Karenina nel 1878), entrambi premiati da uno straordinario successo. Nonostante le simmetrie non si limitino soltanto all’adulterio, per stile e carattere delle protagoniste ciascuno brilla di una luce propria e inimitabile.

E se Flaubert rappresenta una donna superficiale dominata dal desiderio affidandosi ai dettagli narrativi e ad una travolgente sensualità della narrazione (che gli varranno un processo, poi vinto, per oscenità), Tolstoj si mostra maggiormente interessato all’introspezione psicologica e alle conseguenze sociali delle gesta di una donna consapevole e fortemente combattuta che sceglierà di abbandonare tutto per inseguire un sentimento scandaloso e che alla fine verrà travolta dal senso di colpa e da un risentimento autodistruttivo una volta che si sentirà tradita dall’esaurirsi di quell’amore.

Singolarmente, nelle prime pagine dei due romanzi, viene rappresentato un ballo che segnerà il destino delle due protagoniste (e che in entrambi costituiscono quello che in linguaggio moderno potremmo definire quasi un teaser). Per Emma il fugace contatto con un mondo di lusso ed eleganza rappresenterà il punto di partenza per il rifiuto della propria realtà e lo stimolo ad abbandonarsi all’inseguimento di ogni proprio capriccio e desiderio di evasione:

“(…) Alcuni uomini (una quindicina) tra i venticinque e i quarant’anni, sparpagliati tra i ballerini o fermi a discorrere accanto alle porte, si distinguevano tra la folla per una certa aria di famiglia, anche se eran diversi d’età, abiti e fisionomie. Meglio tagliate, le loro marsine parevano fatte d’una stoffa più morbida e i loro capelli, arricciati sulle tempie, parevano lustrati con pomate più fini. Avevano l’incarnato della ricchezza, quel pallore che risalta tra i candidi riflessi delle porcellane, la cangiante lucentezza del raso, la squisita vernice dei bei mobili, il pallore che si conserva sano per mezzo di un regime discreto di vivande raffinate. Il loro collo girava comodamente nelle cravatte basse; i loro lunghi favoriti ricadevano sui colletti arrovesciati; per asciugarsi le labbra usavano fazzoletti ricamati con grandi iniziali ed emananti un soave profumo. Quelli che cominciavano a invecchiare avevano l’aria giovanile, mentre una certa maturità aleggiava sulle facce dei più giovani. Nei loro sguardi indifferenti si specchiava la tranquillità delle passioni quotidianamente saziate; e, attraverso i loro modi compiti, affiorava quel tanto di brutalità che deriva dal dominio delle cose non troppo difficili, in cui la forza si manifesta e la vanità si compiace, come nell’addestramento dei cavalli di razza e nella compagnia delle donne perdute. A tre passi da Emma un cavaliere in marsina blu parlava del l’Italia con una giovane donna pallida con una gran collana di perle. Magnificavano l’imponenza delle colonne di San Pietro, Tivoli, il Vesuvio, Castellammare e le Cascine, le rose di Genova, il Colosseo al chiar di luna. (…) A un certo punto uno dei ballerini, che veniva chiamato familiarmente visconte e che portava il panciotto molto aperto come modellato sul suo petto, invitò per la seconda volta la signora Bovary, assicurandole che l’avrebbe guidata lui e che lei se la sarebbe cavata benissimo. Cominciarono con lentezza, poi andarono sempre più in fretta. Volteggiavano: tutto girava intorno a loro, lampade, mobili, soffitto, pavimento, tutto, come un disco su un perno. Passando vicino alle porte, la veste di Emma si gonfiava all’orlo sino a sfiorare i pantaloni di lui; le loro gambe s’incrociavano; lui abbassava gli occhi su di lei, lei levava gli occhi verso di lui; la stremava un gran languore, si fermò. Ma poi ripartirono; e, con un movimento più rapido, il visconte la trascinò in fondo alla galleria, lì, senza fiato, lei si sentì cadere e appoggiò per un attimo la testa sul petto dell’uomo. E poi ancora, girando sempre, ma più dolcemente adesso, lui la ricondusse sino alla sua sedia; lei si lasciò andare contro la parete, una mano davanti agli occhi. Quando li riaprì, vide in mezzo al salone una signora seduta su un seggiolino, con davanti tre ballerini inginocchiati. L’eletto fu il visconte, il violino riprese a suonare. (…)

La notte era buia. Cadeva qualche goccia di pioggia. Lei respirò il vento umido che le rinfrescava le palpebre. La musica della festa le ronzava ancora negli orecchi, lei si forzava di restare sveglia, voleva prolungare l’illusione di quell’esistenza di fasto che sapeva di dover troppo presto abbandonare. Spuntava l’alba. Guardò a lungo le finestre del castello, cercando di indovinare le stanze di tutti quelli che aveva conosciuto quella sera. Avrebbe voluto conoscere anche le loro vite, penetrarvi, confondersi in esse. Ma stava tremando di freddo. Si spogliò, si rannicchiò tra le lenzuola contro Charles che già dormiva. (…)”

Gustave Flaubert – Madame Bovary

Il modo in cui invece Tolstoj decide di mostrarci lo sfarzo e la mondanità che fanno da cornice alla nascita nell’attrazione tra Anna e Vronskij è attraverso gli occhi di Kitty, la poco più che adolescente nipote di Anna, che nell’indovinare sul volto di Anna ciò che sta per accadere vede infrangersi tutti i suoi sogni di felicità:

“(…) Kitty era in una delle sue giornate felici. (…) Su per le spalle e le braccia nude Kitty sentiva freddo come di marmo, sensazione che amava in modo particolare. Gli occhi le scintillavano e le labbra vermiglie non potevano non sorridere della consapevolezza del proprio incanto. Non fece in tempo a entrare in sala e a giungere fino alla folla variegata, tutta tulle nastri pizzi e fiori delle signore in attesa di essere invitate (Kitty non si trovava mai fra queste), che già fu invitata al valzer, e dal migliore, dal primo cavaliere nella gerarchia dei balli, da un noto direttore di danze, gran cerimoniere, ammogliato, piacente e ben fatto, Egoruška Korsunskij. (…) 

– È un riposo ballare il valzer con voi – disse lui lanciandosi nei primi passi lenti del valzer. – Un incanto! una piuma! che précision! – diceva, ripetendo a lei quel che diceva a quasi tutte le sue buone conoscenti. Ella sorrise della lode e continuò a osservare la sala al di sopra della spalla di lui. Non era entrata in società da così poco tempo che al ballo tutti i visi potessero fondersi in un’unica estatica visione; non ne era neppure un’assidua frequentatrice alla quale tutti i visi potessero essere così noti da poterne ricevere noia; era nel giusto mezzo: animata, ma nello stesso tempo padrona di sé tanto da poter osservare. 

Nell’angolo a sinistra vide che si era raccolto il fiore della società. Là, inverosimilmente scollata, stava la bella Lidie, moglie di Korsunskij; là c’era la padrona di casa, e là brillava con la sua calvizie Krívin, sempre presente nella cerchia migliore; là guardavano i giovanissimi, non osando accostarsi, e là ella trovò Stiva e subito dopo vide la testa e la figura di Anna, in abito di velluto nero. Anche lui era là. Kitty non l’aveva visto da quella sera in cui aveva detto di no a Levin. Con i suoi occhi presbiti lo riconobbe subito e notò che la guardava. (…) Kitty vedeva Anna ogni giorno, era incantata di lei e se l’era figurata sempre in lilla. Ma ora, vedendola in nero, sentì che non ne aveva afferrato tutto il fascino. Le appariva completamente nuova e insospettata. Capì, ora, che Anna non avrebbe potuto essere vestita in lilla e che il fascino suo consisteva nell’emergere sempre dall’abbigliamento, così che l’abito indossato da lei non venisse notato. E il vestito nero con i merletti pregiati neppure si notava; era solamente una cornice, e ne balzava fuori lei, semplice, naturale, elegante e, nello stesso tempo, allegra e vivace. (…) Vronskij fece qualche giro di valzer con Kitty. (…) Durante la quadriglia non fu detto nulla di particolare. La conversazione, smozzicata, si aggirò ora sui Korsunskij, marito e moglie, che Vronskij descrivev in modo molto ameno, come cari bambini di quarant’anni, ora sul futuro teatro di società, e solo una volta la toccò nel vivo, quando egli le chiese se c’era Levin e soggiunse che gli era piaciuto molto. Ma Kitty del resto non si aspettava di più dalla quadriglia.

Attendeva la mazurca col cuore che le veniva meno. Le sembrava che nella mazurca si dovesse decidere tutto. Il fatto che durante la quadriglia egli non l’avesse invitata per la mazurca, non l’inquietava. Era sicura di ballare la mazurca con lui, come già ai balli precedenti, e rifiutò cinque cavalieri dicendo d’essere impegnata. Tutto il ballo, fino all’ultima quadriglia, fu per Kitty una magica visione di colori gioiosi, di suoni e di movimento. Tralasciava di ballare e chiedeva un po’ di riposo solo quando si sentiva troppo stanca. Ma ballando l’ultima quadriglia con uno di quei giovanotti uggiosi al quale non s’era potuto dir di no, venne a trovarsi vis-à-vis con Vronskij e Anna. Dall’inizio del ballo non si era più ritrovata con Anna; ed ecco, a un tratto, la vide ancora del tutto nuova e insospettata. Riconobbe in lei i segni dell’eccitamento dovuto al successo ch’ella stessa conosceva. Vedeva che Anna era come inebriata dall’incanto da lei suscitato. Conosceva questa sensazione, ne conosceva i segni e li vedeva in Anna. Vedeva lo scintillio degli occhi, tremulo e avvampante, e il riso di felicità e di eccitamento che senza volere le increspava le labbra; vedeva la grazia misurata, la sicurezza e la levità dei movimenti. « Ma per chi? » si domandò. «Per tutti o per uno solo?» (…) « No, non è l’ammirazione di tutti che l’ha inebriata, ma l’esaltazione di uno solo. E chi è quest’unico? Possibile che sia lui? ». Ogni volta che Vronskij parlava con Anna, negli occhi di lei si accendeva uno scintillio gioioso e un riso di felicità increspava le sue labbra vermiglie. Era come se ella volesse contenersi per non fare apparire questi segni, ma questi salivano da soli sul viso. «E lui?». Kitty lo guardò ed ebbe paura. Ciò che con tanta chiarezza appariva nello specchio del viso di Anna, Kitty vide anche in lui. Dove erano più quell’atteggiamento calmo e deciso e quell’espressione del viso liberamente serena? No, ora, ogni volta che egli si volgeva a lei, piegava un po’ il capo, quasi desideroso di caderle ai piedi, e nello sguardo suo non vi era che un’espressione di sottomissione e di paura. « Io non voglio offendervi – diceva ogni volta il suo sguardo – ma voglio salvarmi e non so come ». Un’espressione quale non aveva mai vista nel viso di lui. 

Parlavano di amici comuni, facevano la più insignificante delle conversazioni, ma a Kitty pareva che ogni parola pronunziata decidesse il loro e il suo destino. (…) Tutto il ballo, il mondo intero, tutto si coprì di nebbia nel cuore di Kitty. Soltanto la severa educazione ricevuta la sosteneva e l’obbligava a fare quello che da lei si pretendeva, cioè ballare, rispondere alle domande, parlare, sorridere persino. Ma, prima che cominciasse la mazurca, quando già si allontanavano le sedie e alcune coppie s’erano mosse dai salotti verso la sala grande, Kitty fu presa da un attimo di disperazione e di orrore. Aveva rifiutato cinque cavalieri e ora non ballava la mazurca. Non c’era neppure speranza che qualcuno l’invitasse; proprio perché ella aveva un così grande successo in società, a nessuno poteva venire in mente che non fosse stata invitata fino ad ora. Occorreva dire alla madre che non stava bene e voleva tornare a casa, ma non ne aveva la forza. Si sentiva annientata.

Si ritirò in fondo a un piccolo salotto e si lasciò cadere su di una poltrona. L’aerea sottana del vestito si sollevò come una nuvola intorno alla sua vita sottile; la mano nuda, magra e delicata di fanciulla, abbandonata e senza forza affondò nelle pieghe della tunica rosa; l’altra reggeva il ventaglio e con movimento rapido rinfrescava il viso accaldato. Ma a dispetto di questa sua parvenza di farfalla attaccatasi or ora a un filo d’erba e pronta a volar via aprendo le ali iridate, una tremenda disperazione stringeva il suo cuore. (…)”

Lev Tolstoj – Anna Karenina

Correzione

“(…) Si era sempre esercitato in prose brevi, in descrizioni della natura, per poter assurgere tramite queste descrizioni alla perfezione del suo pensiero scientifico. Pensare di continuo all’interno e all’esterno della natura e talvolta mettere per iscritto i suoi pensieri era stato per lui esercizio di una vita.  L’ultimo esercizio del genere era stata una descrizione della soffitta di Höller che pensavo di trovare qui, nella scrivania della soffitta di Höller, e che in effetti ho anche trovato nella scrivania della soffitta di Höller. Già rileggendo le prime righe di questo suo esperimento avevo concepito l’idea di pubblicare in un libro un’intera raccolta delle brevi prose descrittive di Roithamer poiché in un’epoca in cui si stampa e si pubblica tutto, purché non sia qualcosa di notevole, purché non sia qualcosa di realmente originale e per giunta anche estremamente geniale dal punto di vista scientifico, e ogni anno si gettano sul mercato centinaia e migliaia di tonnellate di stupidaggini affidate alla carta, tutta l’immondizia corrotta di questa società europea corrotta fino al midollo, o meglio, non esito a dire, della società universale corrotta fino al midollo, in un’epoca in cui si produce sempre e soltanto solo immondizia intellettuale e questa immondizia intellettuale perennemente maleodorante che perennemente intasa tutto e spacciata di continuo nel più ripugnante dei modi per un prodotto dell’intelletto mentre in realtà è soltanto un prodotto di scarto delle intelletto, in un’epoca simile è addirittura un dovere dare alle stampe, rendere pubblica un’arte simile sia pure poco appariscente e disadorna come l’arte della prosa di Roithamer la quale non susciterebbe affatto scalpore, penso, ma bisognerebbe fare in modo che non vada più perduta, che sia stampata e fissata sulla carta per sempre perché senza dubbio queste prose di Roithamer sono frutti pregiati dell’intelletto. E cose del genere sono rarissime anche nel nostro paese. (…)”

Thomas Bernhard – Correzione

Leggerezza

Giorni fa mi è capitato di assistere ad una puntata di “Lezioni d’Autore”, programma del canale LaF, in cui Alessandro Baricco ragionava sul senso profondo della letteratura; la capacità dei grandi scrittori di definire i bordi, spesso per noi così nebulosi, dei grandi aspetti della nostra vita con il loro tratto caratteristico fatto di parole. È questo, in fondo, il ruolo che affidiamo ad un grande romanzo: seguire le riflessioni dell’autore su temi fondamentali aiutandoci ad interrompere per qualche momento il flusso dei nostri rimuginamenti. Un concetto peraltro molto vicino a quello espresso già tanti anni fa dallo stesso Baricco, riprendendo Pavese, nello storico, e per me fondamentale, programma televisivo “Totem”. La possibilità, leggendo, di ritrovare tra le pagine di un libro qualcosa che riconosciamo come profondamente nostro di cui riappropriarci.

A titolo di esempio Baricco affrontava il tema della leggerezza. Quella con la elle maiuscola. E citava due esempi. Il primo è “Il circolo Picwick” per quella inimitabile capacità di Dickens di offrire un affresco dei vizi e delle virtù di quell’epoca narrando le (dis)avventure di un gruppo di sfaccendati benestanti che se ne andavano in giro per tutta l’Inghilterra. Un romanzo che per cinquantasette capitoli e oltre mille pagine attraverso una prosa straordinariamente elegante e raffinata gira in definitiva intorno al nulla. Quasi fosse una Ferrari che con il rombo del suo motore turbo si ritrovi a girare in città a venti all’ora.

Il secondo esempio citato da Baricco è invece “Il giovane Holden” con cui Salinger, all’inizio degli anni cinquanta, inventa il linguaggio di un quasi adolescente un po’ ribelle che arriverà a dar voce al moto di protesta di un’intera generazione e che andrà montando fino al sessantotto. Ma non è soltanto la voce ad aver reso questo romanzo immortale quanto l’abilità di Salinger nel soffermarsi con una o due frasi, dopo vari giri concentrici, su qualche riflessione che scende giù in profondità per poi portare il lettore immediatamente da un’altra parte. Esempio inimitabile della capacità di saper toccare ciò che c’è di fondamentale con leggerezza.

“(…) Con tutto che era domenica e Phoebe non poteva essere là con la sua classe e via discorrendo, e che il tempo era così brutto e umido, mi feci tutto il parco a piedi fino al Museo di Storia Naturale. Sapevo che era quello il museo di cui aveva parlato la ragazzina con la chiave dei pattini. La conoscevo a memoria, quella lagna del museo. La scuola di Phoebe era la stessa dove andavo io da bambino, e non facevano che portarci al museo. Avevamo quella maestra, la signorina Aigletinger, che ci portava là tutti i maledetti sabati o quasi. Certe volte ci portava a vedere gli animali, certe volte gli oggetti che gli indiani avevano fatto secoli prima. Stoviglie, cestini di paglia e tutta roba così. Mi sento molto felice quando ci ripenso. Ancora adesso. Mi ricordo che dopo aver guardato tutti quegli oggetti indiani, di solito andavamo a vedere un film in quel grande auditorium. Colombo. Ci facevano vedere sempre Colombo che scopriva l’America, che sudava sette camicie per convincere Ferdinando e Isabella a dargli i soldi per comprare le caravelle e poi i marinai che si ammutinavano e via dicendo. A noi non ce ne importava un accidente del vecchio Colombo, ma eravamo sempre stracarichi di caramelle e di gomma eccetera eccetera, e nell’auditorium c’era un odore così buono. Un odore come se fuori piovesse anche quando non pioveva, e voi eravate nell’unico posto piacevole, asciutto e caldo del mondo. Mi piaceva, quel maledetto museo. Mi ricordo che per andare all’auditorium bisognava passare per la Sala degli indiani. Era una sala lunga lunga, e bisognava parlare bisbigliando. Prima entrava la maestra e poi tutta la classe. Si andava in fila per due, così ognuno aveva un compagno. Il più delle volte io stavo vicino a quella ragazzina che si chiamava Gertrude Levine. Voleva sempre tenerti per mano, e aveva sempre la mano appiccicosa o sudaticcia o che so io. Il pavimento era tutto di pietra, e se tenevi in mano le palline e te le lasciavi scappare, rimbalzavano come matti per tutta la sala e facevano un rumore d’inferno, allora la maestra faceva fermare tutti e tornava indietro a vedere che diavolo succedeva.Però non si arrabbiava mai, la signorina Aigletinger. Poi si passava vicino a quella lunghissima canoa da guerra, era lunga suppergiú quanto tre dannate Cadillac messe in fila, con una ventina di indiani dentro, certi che remavano, certi che invece stavano là con la grinta feroce senza far niente, e tutti quanti avevano la faccia dipinta coi colori di guerra. In fondo alla canoa c’era un tipo spaventoso con una maschera sul viso. Era lo stregone. Mi faceva venire la pelle d’oca ma mi piaceva lo stesso. E un’altra cosa, se nel passare toccavate una delle pagaie o quello che era, uno dei guardiani ti diceva: «Non toccate niente, bambini», ma lo diceva sempre con la voce gentile, non come un maledetto sbirro o che so io. Poi si passava vicino a quella enorme bacheca di vetro, con dentro degli indiani che strofinavano pezzetti di legno per accendere il fuoco, e una squaw che tesseva una coperta. La squaw che tesseva la coperta era un po’ chinata in avanti e le si vedeva il petto e tutto quanto. Noi allungavamo il collo, anche le femmine, perché erano bambine e di petto non ne avevano più di noi. Poi, prima di entrare nell’auditorium, proprio vicino alle porte, si passava davanti a quell’esquimese. Stava seduto davanti a un buco in quel lago tutta gelato e ci pescava dentro. Proprio vicino al buco c’erano un paio di pesci che aveva già presi. Ragazzi, quel museo era pieno di bacheche. Ce n’erano ancora di più al piano di sopra, con dentro dei cervi che si abbeveravano alle fonti, e uccelli che migravano verso il sud per l’inverno. Gli uccelli più vicini erano impagliati e sospesi a fili di ferro, quelli in fondo invece erano solo dipinti sul muro, ma tutti quanti pareva proprio che stessero volando verso il sud, e se piegavate la testa e li guardavate un po’ dal sotto in su pareva che avessero ancora più fretta di volare al sud. La cosa migliore di quel museo era però che tutto stava sempre allo stesso posto. Nessuno si muoveva. Potevi andarci centomila volte, e quell’esquimese aveva sempre appena finito di prendere quei due pesci, gli uccelli stavano ancora andando verso il sud, i cervi stavano ancora abbeverandosi a quella fonte, con le loro belle corna e le belle, esili zampe, e quella squaw col petto nudo stava ancora tessendo la stessa coperta. Nessuno era mai diverso. L’unico a essere diverso eri tu. Non è che fossi molto più grande né niente di simile. Non era proprio questo. Era solo che eri diverso, ecco tutto. Stavolta avevi addosso il soprabito, magari. Oppure il bambino che era stato vicino a te l’ultima volta si era preso la scarlattina e ora avevi un altro compagno. Oppure non era la signorina Aigletinger ad accompagnare la scolaresca ma una supplente. Oppure avevi sentito papà e mamma che litigavano come due forsennati nella stanza da bagno. O per la strada eri appena passato vicino a una di quelle pozzanghere dove la benzina fa l’arcobaleno. Voglio dire, eri diverso, per una ragione o per l’altra – non so spiegare quello che ho in mente. E anche se sapessi farlo, non sono sicuro che ne avrei voglia. (…)”

J.D. Salinger – Il giovane Holden

Finchè c’è una storia…

(…) La mia situazione è particolarmente toccante. Forse non triste come quella di un orfanello condannato a spazzare camini, ma quasi più triste di ogni altra cosa. Sono una scrittrice che, a causa di una serie di ingenui e inconsapevoli errori di giudizio, si ritrova con quattro figli e un marito, una casa di diciotto stanze senza una domestica, due alani, quattro gatti e – sempre che sia ancora vivo – un criceto. Forse da qualche parte c’è anche un pesce rosso. Ad ogni modo, questo significa che ho al massimo qualche ora al giorno da passare davanti alla macchina da scrivere, e circa sedici – supponendo che mi conceda qualche ora di sonno – da passare chiedendomi cosa cucinare stasera che non abbia già cucinato ieri sera, facendo uscire e rientrare i cani, cercando di dare un aspetto decente al soggiorno senza effettivamente pulirlo, accompagnando i figli alle lezioni di danza e di francese, alle feste e al cinema e alle lezioni di equitazione e poi in paese a comprare un disco di Ricky Nelson, e poi di nuovo in paese a cambiarlo con uno di Fats Domino, e poi a casa di un’amica ad ascoltarlo, e poi a comprare un nuovo paio di scarpette da ballo… É un miracolo che riesca a dormire anche solo quattro ore, sul serio. Soprattutto, vorrei aggiungere, perché non posso usare telefono; lo sta sempre usando qualcun altro. Il massimo che posso fare è gridare al figlio del macellaio, quando passa qui davanti con la sua macchina truccata, di dire a suo padre di prepararmi quattordici costolette d’agnello che passerò a prendere più tardi. A dire il vero, per una scrittrice, l’unico lato positivo di avere dei figli adolescenti è che si offendono molto facilmente. Potete allontanarli con una semplice parola o frase-tipo: « Perché non metti in ordine la tua stanza? » e ottenere un po’ di pace per scrivere. Si precipitano al piano di sopra e non scendono più fino all’ora di cena, e questo in genere mi lascia tempo a sufficienza per scrivere un racconto.

Ad ogni modo, supponendo che io stia scontando i miei errori di giudizio e che il tempo per scrivere non mi basti mai, vorrei trasmettere alcune cose che ho imparato da quei momenti tormentati, inquieti e tanto attesi in cui finalmente mi metto a scrivere; dove, tra parentesi, prendono forma le fissazioni della mamma. Mentre rifaccio i letti e lavo i piatti e vado in paese a cercare le scarpette da ballo, mi racconto delle storie. Storie su qualunque cosa. Semplici storie. Dopotutto, chi può concentrarsi sui propri gesti mentre passa l’aspirapolvere? Io mi racconto delle storie. Ne ho una fantastica sul cesto della biancheria che ora non posso raccontare, e poi storie sui calzini mancanti, sugli elettrodomestici della cucina, sui cestini della carta straccia, sui cespugli lungo la strada che porta a scuola, praticamente su ogni cosa. Mi mantengono attiva, le mie storie. Forse quella sul cesto della biancheria non la scriverò mai – anzi, sono quasi certa che non la scriverò -, ma finché so che li c’è una storia posso andare avanti a separare i capi bianchi da quelli colorati.

Non ho alcuna pazienza per chi pensa che si cominci a scrivere quando ci si siede alla scrivania e si prende in mano la penna e si finisca quando si rimette giù la penna; lo scrittore scrive sempre, vede tutto attraverso una sottile nebbiolina di parole, crea piccole, rapide descrizioni per ogni cosa che vede, osserva di continuo. (…)

Estratto da Paranoia di Shirley Jackson

Il primo romanzo

Al termine della straordinaria prefazione alla riedizione del proprio romanzo “Il sentiero dei nidi di ragno” Italo Calvino scriveva:

“… Questo romanzo è il primo che ho scritto, quasi la prima cosa che ho scritto. Cosa ne posso dire, oggi? Dirò questo: il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto.

Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall’esser definito; e questa definizione poi dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne conferma o approfondimento o correzione o smentita, ma mai più riuscendo a prescinderne.

E ancora: per coloro che da giovani cominciarono a scrivere dopo un’esperienza di quelle con «tante cose da raccontare» (la guerra, in questo e in molti altri casi), il primo libro diventa subito un diaframma tra te e l’esperienza, taglia i fili che ti legano ai fatti, brucia il tesoro di memoria – quello che sarebbe diventato un tesoro se avessi avuto la pazienza di custodirlo, se non avessi avuto tanta fretta di spenderlo, di scialacquarlo, d’imporre una gerarchia arbitraria tra le immagini che avevi immagazzinato, di separare le privilegiate, presunte depositarie d’una emozione poetica, dalle altre, quelle che sembravano riguardarti troppo o troppo poco per poterle rappresentare, insomma d’istituire di prepotenza un’altra memoria, una memoria trasfigurata al posto della memoria globale coi suoi confini sfumati, con la sua infinita possibilità di recuperi… Di questa violenza che le hai fatto scrivendo, la memoria non si riavrà più: le immagini privilegiate resteranno bruciate dalla precoce promozione a motivi letterari, mentre le immagini che hai voluto tenere in serbo, magari con la segreta intenzione di servirtene in opere future, deperiranno, perché tagliate fuori dall’integrità naturale della memoria fluida e vivente. La proiezione letteraria dove tutto è solido e fissato una volta per tutte, ha ormai occupato il campo, ha fatto sbiadire, ha schiacciato la vegetazione dei ricordi in cui la vita dell’albero e quella del filo d’erba si condizionano a vicenda. La memoria – o meglio l’esperienza, che è la memoria più la ferita che ti ha lasciato, più il cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso -, l’esperienza primo nutrimento anche dell’opera letteraria (ma non solo di quella), ricchezza vera dello scrittore (ma non solo di lui), ecco che appena ha dato forma a un’opera letteraria insecchisce, si distrugge. Lo scrittore si ritrova ad essere il più povero degli uomini.

Così mi guardo indietro, a quella stagione che mi si presentò gremita d’immagini e di significati: la guerra partigiana, i mesi che hanno contato per anni e da cui per tutta la vita si dovrebbe poter continuare a tirar fuori volti e ammonimenti e paesaggi e pensieri ed episodi e parole e commozioni: e tutto è lontano e nebbioso, e le pagine scritte sono lì nella loro sfacciata sicurezza che so bene ingannevole, le pagine scritte già in polemica con una memoria che era ancora un fatto presente, massiccio, che pareva stabile, dato una volta per tutte, l’esperienza, – e non mi servono, avrei bisogno di tutto il resto, proprio di quello che lì non c’è. Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo.”

Estratto da “Come scrivere un romanzo” di Antonella Lattanzi, seminario del corso “Come si scrive una grande storia”.

Due vite

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Qualche anno fa ho avuto il privilegio di assistere ad una lezione di Emanuele Trevi in un corso di scrittura creativa. Mentre interrogava noi allievi sulle nostre letture e gli autori maggiormente amati mi capitò di osservare che i libri di cui ci innamoriamo sono probabilmente quelli che avremmo voluto scrivere. E ricordo che a quel punto Trevi si fermò per un attimo a riflettere, ripetendo le mie parole e annuendo con la testa.

Ecco, mentre mi lasciavo toccare dalla genuinità dei sentimenti e assaporavo la qualità della scrittura di “Due vite” (Neri Pozza – 144 pagg. – Premio Strega 2021) continuavo ad avere in mente quanto scritto da Concita De Gregorio e riportato nella terza di copertina: «Un libro che in queste settimane ho desiderato imparare a memoria, incorporare le parole come fossero mie». Esattamente la sensazione di cui parlavo allora.

Sì, perché se Trevi ha avuto un merito nel ripercorrere le vite di Rocco Carbone e Pia Pera, due colleghi scrittori e cari amici scomparsi prematuramente, uno per un incidente l’altra per una malattia terminale, è quello di aver scritto con una sincerità e un’urgenza che sfogliando le pagine si trasmettono al lettore per osmosi.

Ne escono due ritratti lucidi e al tempo stesso intimi di personalità per molti versi opposti. Rocco, anima irascibile e spigolosa, con la sua visione intransigente dell’amicizia, perpetuamente in lotta con le sue Furie. Pia, dal temperamento indipendente e quieto, un’elegante signorina inglese ricca di sensibilità e ingenuità in amore ma anche di tenacia e soprattutto dignità, quella di cui darà prova nel finale della sua vita.

C’è un tipo di saggezza che consiste nell’aspettare la verità come un eremita nel deserto, murato tra le proprie abitudini, insensibile alla mutevole varietà del mondo. Può essere: ma Pia era di tutt’altra razza: cavalleria leggera. Mentre si leccava una ferita, era già risalita in groppa. La sua forma di resistenza, o di salvezza, consisteva nel mutare orientamento, facendo fibrillare l’ago della sua bussola alla ricerca del nord che le serviva.

Più che creare un genere nuovo (l’autobiografia per interposta persona, come scrive acutamente Cristina Taglietti) mi è sembrato che Trevi sia riuscito a miscelare con sapienza vari generi, dalla critica letteraria al memoriale al romanzo psicologico, dove è egli stesso un vertice del triangolo di quel fluido navigare tra emozioni e rimpianti che è il voltarsi indietro per fermare e interrogare il passato anche soltanto per elaborarlo.     

In quella lezione di alcuni anni fa Trevi, prendendo come spunto “L’universo” del maestro zen Sengai Gibon, aveva ragionato sul linguaggio come punto di equilibrio (temporaneo e fluttuante) tra la “lingua mentale”, quella intima dei pensieri in libertà e dei sogni, afferente alla nostra sfera privata (il quadrato) e la lingua come strumento di comunicazione che si riferisce alla sfera sociale (il cerchio). Ogni volta che scriviamo, aveva concluso,  realizziamo dei movimenti contrari e simultanei da una parte per rendere comprensibile la dimensione privata ed uscire dall’isolamento e dall’altra per rendere parzialmente privato il linguaggio collettivo (cercando di dire delle cose creando l’illusione che siano state dette per la prima volta).

L’universo – Sengai Gibon

Al pari del triangolo di Sengai, credo che quel labile e magico punto di equilibrio sia esattamente ciò che è riuscito a raggiungere Emanuele Trevi con “Due vite”.

Scrivere di una persona reale e scrivere di un personaggio immaginato alla fine dei conti è la stessa cosa: bisogna ottenere il massimo nell’immaginazione di chi legge utilizzando il poco che il linguaggio ci offre. Far divampare un fuoco psicologico da qualche fraschetta umida raccattata qua e là. Il dizionario del volto, per esempio, è di una povertà cosí sconfortante («occhi», «naso», «bocca»…) che a volte ci si arrende prima ancora di iniziare. Che differenza c’è tra la Pia Pera registrata all’anagrafe di Lucca il 12 marzo del 1956 e la Tatjana di Puškin? Dal punto di vista del linguaggio, sono solo due pupazzetti fatti di scampoli lisi e fil di ferro, un ciuffetto di crine per i capelli, due bottoni spaiati per gli occhi. Se in qualche anfratto della mente fraterna e sconosciuta di un lettore riusciranno ancora a prendere un’effimera parvenza di vita, a sorridere o a rabbrividire per il freddo, rialzando il bavero del loro cappottino di stracci… questo è proprio ciò che definiamo lo spirito, ovvero la possibilità che la nostra esistenza, che trascorre tutta intera nella carne e nei suoi bisogni, possieda anche ombra, una quintessenza che la porti fuori da se stessa. Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. E quando anche l’ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno. Di una cosa sono sicuro: mentre scrivo, e fintanto che me ne sto seduto a scrivere, Pia è qui, la sua presenza è ingombrante come quella del tavolo, o della lampada. Se invece penso a Pia, ci sono solo io che la penso, è tutto nella mia testa, all’altro capo del filo c’è solo un’assenza. E se la sogno, è la stessa cosa, è un’altra parte del mio lo che sta creando la sua Pia. Ne deduco che la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne, accorgendosi ben presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta.

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