Educarsi allo stupore

È una mattina dei primi di giugno. Sono i tempi dell’Università e sto preparando l’esame di Storia dell’Arte. Arrivato alla pagina sulla Volta della Cappella Sistina mi rendo conto che per quanto continui a sguerciarmi sull’Argan certe nozioni non riesco a verificarle. Guardo l’orologio,  è ancora presto, e dal momento che abito a quindici minuti dal Vaticano decido di andarci. Una volta lì pago il biglietto e invece di accodarmi alla folla di turisti spinti dai loro bovari in direzione Galleria delle Carte Geografiche – Stanze di Raffaello seguo contromano la via breve che mi porta direttamente alla Cappella Sistina.

Una volta dentro mi apparto in un angolo e tiro fuori il libro. Comincio a ripassare sul posto, verifico le parti che devo approfondire, alzo la testa ed è allora che accade. Mi manca il respiro. Un brivido mi attraversa la schiena. Una sensazione che mi abita per lo spazio di un istante. Eppure sufficiente per accorgermi che a forza di stare per giorni con la testa sprofondata sui libri impegnato a immagazzinare informazioni ho perso di vista la straordinarietà di ciò che adesso, srotolato sotto i miei occhi, reclama il proprio diritto alla meraviglia.   

Per molto tempo ho pensato a quel momento cercando di impormi di guardare ciò che avevo intorno, opera dell’uomo o del Creatore, con occhi ogni volta nuovi. E come cerchi concentrici che una volta gettato un sasso in uno stagno si allargano sempre di più, ho pensato che questo stesso modo di educarsi è replicabile in tutti gli altri ambiti della nostra vita. Dagli affetti che ci circondano allo sguardo indulgente nei confronti del passato.

In fondo, niente di più del vecchio pistolotto sull’importanza di vivere l’attimo. Di educarsi a non dare nulla per scontato. Di godere di ciò che abbiamo nel momento in cui lo viviamo invece di rimpiangerlo quando è trascorso. Teoria, spesso e volentieri. Purtroppo.

Trascorrono poco meno di trent’anni e, dopo un lungo percorso di riavvicinamento alla religione ebraica, mi ritrovo a entrare nel mondo dello Shabbat. Mi accorgo che, in fondo, una delle lancette che imprimono un ritmo diverso a questo tempo “altro”, placato e sospeso, è proprio questo obbligo ad arrestarsi per recuperare il senso della meraviglia. Di fronte a ciò che siamo e a dove ci troviamo, arretrando quel tanto che ci consenta di cambiare la prospettiva dello sguardo per abbracciare il panorama che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni con animo diverso. Perché è diverso il nostro baricentro.

Predisposizione che per quanto mi sforzi, dall’accensione delle candele della havdalà fino allo Shabbat successivo, torna a essere un’esperienza autoimposta. E volatile. Sì, perché regalarsi degli occhi nuovi non è tanto una questione di quantità di tempo. Ma di una qualità capace di restituire alla pelle la porosità posseduta da bambini di fronte allo stupore.

Ora, mentre scrivo non saprei dire se in quella famosa mattina internet ancora non esistesse o se ci trovassimo negli anni in cui nessuno aveva ancora la minima idea sulla sua utilità nella vita pratica. Sta di fatto che, se mi fosse accaduto oggi, so con certezza che invece di alzarmi dalla scrivania sarei andato su Google e avrei cercato qualche sito specializzato o un tour virtuale. Con la differenza che la meraviglia, per quanti sforzi possa fare il marketing, uno schermo Oled non sa ancora replicarla.

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Inversione di prospettiva

Mi è già capitato di raccontare in altri post le circostanze che hanno portato cinque anni fa al mio riavvicinamento alla religione ebraica diventando Shomèr Shabbàt e Shomèr mitzvòt*. Non è stato, come ho spiegato, il frutto di una folgorazione Divina. Semmai la conclusione di un processo iniziato dieci anni prima con la nascita di mia figlia una volta posta la questione se dovesse essere cresciuta laicamente o religiosamente (cosa che comportava non poche difficoltà essendo il mio un matrimonio misto). Mi sono trovato a interrogarmi su quali basi dovessero poggiare i valori che volessi trasmetterle  ma, soprattutto, come pormi ai suoi occhi, consapevole della responsabilità di un genitore di fornire un esempio coerente nei comportamenti.

Per cinquant’anni mi sono considerato un ebreo laico, lontano dall’osservanza delle mitzvòt ma lo stesso fiero della mia storia, delle mie radici e tradizioni. In questo senso mi sono sempre riconosciuto nel concetto che a definire quel che siamo non siano tanto le parole ma il modo di agire. I Maestri della chassidùt insegnano che ciascuno prima di compiere un’azione dovrebbe immaginare che tutto ciò che si è fatto nel passato, di positivo e negativo, stia per essere giudicato e che i due piatti della bilancia siano in perfetto equilibrio. Non solo. Che nella stessa condizione ci sia l’intero universo e che l’azione che stiamo per compiere abbia il potere di far pendere la bilancia da una parte o dall’altra per tutto il Creato.

Eppure la sensazione è che l’uomo del terzo millennio, evoluto e tecnologico, alle leggi che guidano il mondo animale – nutrirsi, fare sesso e riprodursi – abbia aggiunto soltanto il possedere cose e idolatrare sé stesso.

Ecco, quando cinque anni fa ho deciso che da quel momento in avanti avrei sbattuto sotto il tappeto tanti dubbi e domande interiori ma che avrei vissuto come se la mia fede fosse incrollabile è stato proprio per un’inversione di prospettiva. Dostoevskij in una lettera privata scriveva che se anche gli avessero dimostrato che D.o non fosse la Verità egli sarebbe stato con D.o e non con la Verità. A significare che lo sforzo di autocensura e regolamentazione necessario per essere in ogni momento coerente con i propri valori possa essere figlio soltanto del sentirsi continuamente osservati e tenuti sotto esame. Ma soprattutto, come insegnano i Maestri, nel porsi all’interno di limiti.

In lingua ebraica il termine qaddosh (santo) ha anche il significato di “distinto”. Perché questa è la missione di un ebreo. Scegliere di non assecondare l’aspirazione ad appropriarsi di tutto ciò che è accessibile ma recintare la propria vita materiale in uno spazio di sacralità fatto di azioni e privazioni che riaffermino continuamente insegnamenti e valori.

Perché posare la testa sul cuscino andando a dormire e sentirsi in armonia con l’immagine ideale che abbiamo di noi stessi è l’unica strada per dare un senso profondo alla nostra esistenza.

* Shomèr Shabbàt e Shomèr mitzvòt: rispettoso del riposo sabatico e di tutti i doveri e i divieti.

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Shomèr mitzvòt

Essere ebrei non è una passeggiata. Anzi, a dirla tutta, fino a qualche anno fa avrei sottoscritto la tesi che non si tratti nemmeno di un grande affare. E non parlo tanto dell’avversione tramandata nei secoli nei confronti di un popolo tacciato di deicidio e che, ciononostante, si ostinava a non volersi assimilare ritenendosi il “cocco” del Capo.

Ecco, forse questa storia del popolo eletto è bene chiarirla una buona volta. Nel brano in questione contenuto nell’Esodo (Parashà Yitrò, cap.19,3) è scritto: “E ora, se ascolterete attentamente la mia voce e osserverete il mio patto, sarete per me il tesoro (più amato) tra tutti i popoli…” La benevolenza Divina, dunque, non è gratis ma va guadagnata seguendo lo stile di vita sposato ricevendo la Torá sotto il monte Sinay. Una vita dedicata a onorare e servire il Creatore attraverso l’osservanza delle mitzvòt*: le seicentotredici prescrizioni che regolano la vita di un ebreo. Azioni e comportamenti che ricordano continuamente (ed esaltano) la spiritualità presente in tutti gli aspetti materiali con cui ci confrontiamo ogni giorno.

Quando qualche anno fa ho deciso di completare il percorso di riavvicinamento alla religione diventando Shomer Shabbat e Shomer mitzvòt** mi sono sentito come se fossi ai piedi di una montagna da scalare. Mi sembravano tali e tante le prescrizioni e i divieti che non avrei potuto farcela. Ho cominciato per gradi, cercando di aggiungere giorno dopo giorno una mitzvà alla volta. Un po’ nel timore di spingermi troppo oltre per poi sentire il bisogno di tornare indietro. Un po’ per pormi come esempio davanti a mia figlia perché crescesse all’interno di uno stile di vita coerente, senza traumatizzarla o forzarla troppo. Speravo così che tutte le scelte che avevo fatto per me stesso si sentisse in grado di farle anche lei autonomamente e in piena libertà.

Non è stata un’impresa semplice. Ricordo ancora le difficoltà nel dovermi confrontare a cinquant’anni con le mie lacune non soltanto sulle norme ma anche con la lingua ebraica e, soprattutto, con la preghiera. É facile riconoscere un ebreo non religioso quando entra in sinagoga. Basta osservare la sua espressione imbarazzata, la kippà indossata storta come se la testa che la ospita la ritenesse un corpo estraneo, i gesti impacciati da elefante in una cristalleria.

E poi le complicazioni date dal cambiamento di abitudini e di prospettive. Le limitazioni nel mangiare, nella socialità fino all’impegno permanente a uscire fuori dal mondo per un giorno a settimana sospendendo qualsiasi attività che non sia la cura dell’anima e degli affetti.

Mi è capitato spesso in questi anni di parlare del nuovo indirizzo della mia vita con sedicenti credenti laici, ebrei e non, e di sentirmi dire: “Molto bello, ma io non potrei mai!” Ecco, penso che in questa frase si concentri un po’ tutta l’essenza di un ebreo. La volontà di vivere in posizione subalterna rispetto al creato e non viceversa. Una disponibilità che si sente ancora più tangibile attraverso la rinuncia a ciò che è accessibile e di cui tuttavia si “sceglie” di fare a meno. È questa la faticosa inversione di prospettiva che mi rendo conto di aver raggiunto ora che, a metà dell’arrampicata, mi volto indietro per godermi la vista da quassù. La raggiunta consapevolezza che la vera libertà sta nell’essere capace di dire: “Potrei, se volessi, ma dico di no perché non mi è permesso”.

Giorni fa, passando davanti a una gelateria di cui eravamo clienti seriali ai limiti della dipendenza, mia figlia mi ha guardato con una luce furbetta nei suoi occhi puri. « Papà, » mi ha detto, « facciamo un minuto di raccoglimento… »

Aveva il suono allegro nella nostra commemorazione nostalgica di quei gusti prelibati la percezione esatta di quanta strada abbiamo fatto entrambi.

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* Le mitzvòt (i precetti) si dividono in positive, azioni da compiere, e negative, azioni da cui astenersi.

** Rispettoso delle mitzvòt e dello Shabbat (termini che contraddistinguono l’ebreo religioso).

Maestri

In “Crimini e misfatti” la lezione del giorno che Cliff impartisce alla nipote uscendo dal cinema è: « Non ascoltare i tuoi insegnanti, guardali e imparerai molto sulla vita che ti aspetta… »

Ecco, devo dire che fin da ragazzo anch’io i miei maestri, più che sui banchi di scuola, me li sono scelti tra gli autori che ho amato.

Da adolescente “Lamento di Portnoy” di Philip Roth e i lavori di Woody Allen mi hanno fornito la strada per rielaborare in senso critico – ma anche cinicamente sarcastico –  il rapporto con la cultura ebraica, la famiglia e tutto ciò che delle mie origini sentivo essere soffocante una volta intrapresa la strada della laicità.

A trent’anni, con Dostoevskij, sono stato folgorato dalle letture ricche di pensiero. Dalla capacità di concepire un’opera in cui l’intreccio narrativo fosse soprattutto un pretesto per approfondire questioni fondamentali riguardo alla società, alla fede, ai valori e all’introspezione psicologica.

Con Dickens ho scoperto la godibilità del British humor, il suo uso sapiente non come protagonista ma al servizio del racconto.

Di Tolstoj mi ha innamorato l’assoluta perfezione stilistica, la capacità impareggiabile di utilizzare un narratore esterno onnisciente eppure in nessun momento invasivo.

Kafka è stato un terremoto. La scoperta del surreale come superba arte di suggerire invece di narrare (anche superiore al mostrare…)

Con “La simmetria dei desideri” di Eskhol Nevo ho capito l’importanza della struttura in un romanzo. La capacità di tessere una tela all’oscuro del lettore per rivelarla soltanto nelle ultime pagine come se all’improvviso si tirassero dei fili e all’interno della bottiglia venisse su un veliero in miniatura, tanto perfetto quanto inaspettato.

“Il teatro di Sabbath” di Philiph Roth mi ha fatto capire che scrivere è spesso un’esperienza catartica. Che con il lettore non si può omettere né censurare nulla. E se si sceglie di affrontare fantasmi e lati oscuri della nostra mente allora bisogna mettersi a nudo completamente. Con l’onestà brutale di una seduta dal proprio analista.

“La trilogia di K” di Âgota Kristóf  è stata un tale pugno allo stomaco che ci ho messo un po’ per riprendermi. Una voce secca, lucida, netta. Quasi le parole fossero incise da un laser e le frasi ridotte all’osso e prive di aggettivi passaggi di un’equazione matematica. Un modo di narrare lontano anni luce dal mio e proprio per questo tanto più affascinante quanto irraggiungibile.

E infine S.Y. Agnon, forse l’incontro più sorprendente della mia carriera di lettore esigente. Ho sempre pensato che la percezione nei confronti dei libri che leggiamo non può mai essere assoluta ma dipende dal periodo della vita in cui li incontriamo. Madame Bovary, ad esempio, è stato un romanzo che ho letto troppo presto per poterlo davvero apprezzare (come mi ha fatto capire Antonella Lattanzi nel corso dei suoi seminari).

Ecco, aver conosciuto la prosa serafica di Agnon con la sua voce deferente intessuta di riferimenti alla liturgia e alla vita religiosa mi ha mostrato il contributo che può essere dato alla narrativa dalla cultura ebraica.  Che non è soltanto quello di fornire il bersaglio per le “freccette” lanciate dall’ebreo laico o dall’Yiddish humor. Ma che può comprendere i valori e gli insegnamenti desunti dall’opera dei Maestri con i quali mi approccio ogni giorno.  Insomma, da “Lamento di Portnoy” e Woody Allen un bella capriola…

Leggerezza

Giorni fa mi è capitato di assistere ad una puntata di “Lezioni d’Autore”, programma del canale LaF, in cui Alessandro Baricco ragionava sul senso profondo della letteratura; la capacità dei grandi scrittori di definire i bordi, spesso per noi così nebulosi, dei grandi aspetti della nostra vita con il loro tratto caratteristico fatto di parole. È questo, in fondo, il ruolo che affidiamo ad un grande romanzo: seguire le riflessioni dell’autore su temi fondamentali aiutandoci ad interrompere per qualche momento il flusso dei nostri rimuginamenti. Un concetto peraltro molto vicino a quello espresso già tanti anni fa dallo stesso Baricco, riprendendo Pavese, nello storico, e per me fondamentale, programma televisivo “Totem”. La possibilità, leggendo, di ritrovare tra le pagine di un libro qualcosa che riconosciamo come profondamente nostro di cui riappropriarci.

A titolo di esempio Baricco affrontava il tema della leggerezza. Quella con la elle maiuscola. E citava due esempi. Il primo è “Il circolo Picwick” per quella inimitabile capacità di Dickens di offrire un affresco dei vizi e delle virtù di quell’epoca narrando le (dis)avventure di un gruppo di sfaccendati benestanti che se ne andavano in giro per tutta l’Inghilterra. Un romanzo che per cinquantasette capitoli e oltre mille pagine attraverso una prosa straordinariamente elegante e raffinata gira in definitiva intorno al nulla. Quasi fosse una Ferrari che con il rombo del suo motore turbo si ritrovi a girare in città a venti all’ora.

Il secondo esempio citato da Baricco è invece “Il giovane Holden” con cui Salinger, all’inizio degli anni cinquanta, inventa il linguaggio di un quasi adolescente un po’ ribelle che arriverà a dar voce al moto di protesta di un’intera generazione e che andrà montando fino al sessantotto. Ma non è soltanto la voce ad aver reso questo romanzo immortale quanto l’abilità di Salinger nel soffermarsi con una o due frasi, dopo vari giri concentrici, su qualche riflessione che scende giù in profondità per poi portare il lettore immediatamente da un’altra parte. Esempio inimitabile della capacità di saper toccare ciò che c’è di fondamentale con leggerezza.

“(…) Con tutto che era domenica e Phoebe non poteva essere là con la sua classe e via discorrendo, e che il tempo era così brutto e umido, mi feci tutto il parco a piedi fino al Museo di Storia Naturale. Sapevo che era quello il museo di cui aveva parlato la ragazzina con la chiave dei pattini. La conoscevo a memoria, quella lagna del museo. La scuola di Phoebe era la stessa dove andavo io da bambino, e non facevano che portarci al museo. Avevamo quella maestra, la signorina Aigletinger, che ci portava là tutti i maledetti sabati o quasi. Certe volte ci portava a vedere gli animali, certe volte gli oggetti che gli indiani avevano fatto secoli prima. Stoviglie, cestini di paglia e tutta roba così. Mi sento molto felice quando ci ripenso. Ancora adesso. Mi ricordo che dopo aver guardato tutti quegli oggetti indiani, di solito andavamo a vedere un film in quel grande auditorium. Colombo. Ci facevano vedere sempre Colombo che scopriva l’America, che sudava sette camicie per convincere Ferdinando e Isabella a dargli i soldi per comprare le caravelle e poi i marinai che si ammutinavano e via dicendo. A noi non ce ne importava un accidente del vecchio Colombo, ma eravamo sempre stracarichi di caramelle e di gomma eccetera eccetera, e nell’auditorium c’era un odore così buono. Un odore come se fuori piovesse anche quando non pioveva, e voi eravate nell’unico posto piacevole, asciutto e caldo del mondo. Mi piaceva, quel maledetto museo. Mi ricordo che per andare all’auditorium bisognava passare per la Sala degli indiani. Era una sala lunga lunga, e bisognava parlare bisbigliando. Prima entrava la maestra e poi tutta la classe. Si andava in fila per due, così ognuno aveva un compagno. Il più delle volte io stavo vicino a quella ragazzina che si chiamava Gertrude Levine. Voleva sempre tenerti per mano, e aveva sempre la mano appiccicosa o sudaticcia o che so io. Il pavimento era tutto di pietra, e se tenevi in mano le palline e te le lasciavi scappare, rimbalzavano come matti per tutta la sala e facevano un rumore d’inferno, allora la maestra faceva fermare tutti e tornava indietro a vedere che diavolo succedeva.Però non si arrabbiava mai, la signorina Aigletinger. Poi si passava vicino a quella lunghissima canoa da guerra, era lunga suppergiú quanto tre dannate Cadillac messe in fila, con una ventina di indiani dentro, certi che remavano, certi che invece stavano là con la grinta feroce senza far niente, e tutti quanti avevano la faccia dipinta coi colori di guerra. In fondo alla canoa c’era un tipo spaventoso con una maschera sul viso. Era lo stregone. Mi faceva venire la pelle d’oca ma mi piaceva lo stesso. E un’altra cosa, se nel passare toccavate una delle pagaie o quello che era, uno dei guardiani ti diceva: «Non toccate niente, bambini», ma lo diceva sempre con la voce gentile, non come un maledetto sbirro o che so io. Poi si passava vicino a quella enorme bacheca di vetro, con dentro degli indiani che strofinavano pezzetti di legno per accendere il fuoco, e una squaw che tesseva una coperta. La squaw che tesseva la coperta era un po’ chinata in avanti e le si vedeva il petto e tutto quanto. Noi allungavamo il collo, anche le femmine, perché erano bambine e di petto non ne avevano più di noi. Poi, prima di entrare nell’auditorium, proprio vicino alle porte, si passava davanti a quell’esquimese. Stava seduto davanti a un buco in quel lago tutta gelato e ci pescava dentro. Proprio vicino al buco c’erano un paio di pesci che aveva già presi. Ragazzi, quel museo era pieno di bacheche. Ce n’erano ancora di più al piano di sopra, con dentro dei cervi che si abbeveravano alle fonti, e uccelli che migravano verso il sud per l’inverno. Gli uccelli più vicini erano impagliati e sospesi a fili di ferro, quelli in fondo invece erano solo dipinti sul muro, ma tutti quanti pareva proprio che stessero volando verso il sud, e se piegavate la testa e li guardavate un po’ dal sotto in su pareva che avessero ancora più fretta di volare al sud. La cosa migliore di quel museo era però che tutto stava sempre allo stesso posto. Nessuno si muoveva. Potevi andarci centomila volte, e quell’esquimese aveva sempre appena finito di prendere quei due pesci, gli uccelli stavano ancora andando verso il sud, i cervi stavano ancora abbeverandosi a quella fonte, con le loro belle corna e le belle, esili zampe, e quella squaw col petto nudo stava ancora tessendo la stessa coperta. Nessuno era mai diverso. L’unico a essere diverso eri tu. Non è che fossi molto più grande né niente di simile. Non era proprio questo. Era solo che eri diverso, ecco tutto. Stavolta avevi addosso il soprabito, magari. Oppure il bambino che era stato vicino a te l’ultima volta si era preso la scarlattina e ora avevi un altro compagno. Oppure non era la signorina Aigletinger ad accompagnare la scolaresca ma una supplente. Oppure avevi sentito papà e mamma che litigavano come due forsennati nella stanza da bagno. O per la strada eri appena passato vicino a una di quelle pozzanghere dove la benzina fa l’arcobaleno. Voglio dire, eri diverso, per una ragione o per l’altra – non so spiegare quello che ho in mente. E anche se sapessi farlo, non sono sicuro che ne avrei voglia. (…)”

J.D. Salinger – Il giovane Holden

Sentire ai tempi dei social

È davvero una società decadente quella nella quale si va in crisi se qualcuno che è online non apre un nostro messaggio o non risponde dopo averlo letto. Dove essere bloccati sui social o non ricevere un like equivale a un’offesa mortale e avere pochi followers è la cifra del proprio fallimento esistenziale.

Tutta una serie di condizionamenti e malesseri interiori sono germogliati così dal nulla senza che ce ne rendessimo conto, impegnati com’eravamo a postare foto ritoccate con filtri magici o a condividere i copia-e-incolla infiniti di link e immagini sottotitolate da un esercito di buontemponi da tastiera.

Partecipiamo con il nostro numero sul petto, allegri e digitanti, ad una maratona di ostentazione e vacuità consapevoli che algoritmi sempre più avidi ci stanno ridefinendo come un insieme di categorie merceologiche e di opinione. Ci commuoviamo e ci indigniamo a comando ossequiosi al mantra del “semplifico quindi sono”  che, presto o tardi, conquisterà la vetta di una tecnologia capace di sgravarci anche del fardello del libero arbitrio.

Così, di fronte al continuo riaggiornarsi dei modi di esprimerli anche i sentimenti si adeguano. Sì, perché nell’era della post verità anche D-o con il suo carico di valori morali arcaici è rimasto indietro. E tutto il nostro mondo, non ultimo quello interiore, se non è quantificabile o rappresentabile non esiste. Deve a tutti i costi alleggerirsi, disimpegnarsi, incasellarsi in emoji o aforismi vomitati da blog e motori di ricerca. Ciò che si prova, se è troppo articolato o complesso, viene subito abbandonato al pari di un post senza un’immagine accattivante o di un articolo troppo zeppo di concetti e parole. E se proprio qualcuno vuole farsi del male ostinandosi a leggersi dentro che non stesse lì tanto a menarla e se ne andasse in analisi… 

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La rabbia e l’orgoglio (ai tempi del Corona virus)

Siamo sempre stati abituati a sederci a tavola ad ora di cena o a sdraiarci sul divano con il telecomando in mano come se fossero le nostre personali postazioni di bird-watching delle tragedie altrui. Ci siamo illusi che informarci, farci un’opinione ma anche empatizzare, scendere in piazza o perfino donare denaro equivalesse ad essere partecipi contro ingiustizie o calamità. Ma non volevamo renderci conto che rientrati in casa, pigiato il tasto off del telecomando, tutte queste ingiustizie e calamità alla fine non intaccavano più di tanto una quotidianità fatta comunque di lussi e privilegi. Ci illudevamo di essere società solo in virtù di una solidarietà spesso ipocrita e pelosa, proprio perché poi un po’ tutti, chi inconsapevolmente, chi dichiaratamente, ci accucciavamo tra i cuscini del nostro divano sollevati di starcene al di qua dello schermo.
Bè, questa volta non è andata così. Gli altri, le vittime, i protagonisti dei commenti pietosi dei notiziari ora siamo noi. E la gara a scansarsi che, come da abitudine, abbiamo fatto tutti quanti in-dis-tin-ta-men-te da febbraio in poi (prima un po’ tutti con la Cina, poi il resto d’Italia con la Lombradia, poi l’Europa con noi italiani, e infine il resto del mondo con noi europei) è fallita miseramente.
Risultato? Un “volemose bene” tanto finto quanto provvisorio che prelude ad un inevitabile ed avvilente “cane mangia cane” nel prossimo futuro. I segnali ci sono già tutti: la chiusura delle frontiere ma anche la rinuncia alla democrazia dei governi, la corsa all’aggiramento delle regole condita dal solito fritto misto di allarmismi, fake news, tormentoni ed amenità sul web, perché egoismo e idiozia sono anche più contagiose del Covid-19.
Come se bastasse illuminare i monumenti di tricolore o cantare l’inno dal balcone per illuderci di avere un’identità nazionale e una coscienza civile. Come se commuoversi davanti all’eroismo di chi sta combattendo una battaglia disperata tra le corsie servisse a curarci della povertà morale di una società fondata sulla corsa a possedere cose e che ha come unica religione l’esposizione di sé.
Mi piacerebbe poter pensare che alla fine, quando la paura sarà finita, tutto questo ci avrà insegnato qualcosa ma ho il sospetto che invece ci scopriremo tremendamente impoveriti. Non solo economicamente.
A meno che…

כאשר החושך מסתיר את האור תן לנשמתך להאיר את העולם

Quando l’oscurità nasconde la luce, lascia che la tua anima illumini il mondo.

Lezioni di letteratura

“Ad alcuni di voi potrà sembrare, che, nella situazione assai irritante del mondo in cui viviamo oggi, studiare la letteratura e, in particolare, studiarne la struttura e lo stile sia uno spreco di energia. […] I romanzi di cui ci siamo imbevuti non vi insegneranno nulla che possiate applicare alle difficoltà della vita; non vi aiuteranno in ufficio, né sul campo di battaglia, né in cucina, né in camera dei bambini. Il sapere di cui ho cercato di farvi partecipi è lusso, puro e semplice. Non vi aiuterà a capire l’economia sociale della Francia, o i segreti del cuore di una donna o di un giovane. Ma, se avrete seguito le mie indicazioni, potrà aiutarvi a provare il senso di appagamento puro e assoluto che dà l’opera d’arte ispirata e ben costruita”.

Da: Lezioni di letteratura – Vladimir Nabokov

Quello (storico) incontro tra Proust e Joyce

Chi può dirsi immune dal fascino che suscitano sempre su di noi le notizie ma anche le indiscrezioni e le curiosità sulle relazioni che hanno intrattenuto personaggi celebri, destinati per le loro gesta o per la loro produzione artistica ad entrare nella storia. E più questi personaggi erano già al loro tempo famosi più la nostra curiosità sui loro rapporti personali cresce. Immaginiamo che gli uni avessero stima e soggezione del genio o della personalità dell’altro. Ci chiediamo di cosa avessero potuto parlare trovandosi faccia a faccia sospettando chissà quale profondità di riflessioni ed acutezza di ragionamenti grazie ai loro ingegni. Vorremmo spiare gli scambi di vedute sulla pittura tra Van Gogh e Gauguin. Sapere la verità sul rapporto di amicizia/rivalità tra Heminguay e Scott Fitzgerald bramando lumi su certi episodi diventati ormai leggenda.

(http://eleggo.net/blog/2015/9/17/i-ricchi-sono-diversi-la-vera-storia-dietro-il-celebre-scambio-fra-f-scott-fitzgerald-ed-ernest-hemingway)

Che poi, in fondo, è la stessa curiosità alla base di “Midnight in Paris” di Woody Allen, una sorta di elettrica eccitazione per le relazioni che riusciva a produrre la Parigi degli anni ’20 quasi si fosse trattato di un enorme laboratorio di chimica in cui i vari elementi erano in grado di combinarsi tra loro per produrre miscele esplosive.

Ci sono volte, però, in cui sull’incontro tra “giganti” c’è in realtà ben poco da dire perché antipatia o disistima hanno fatto in modo che si sia trattato semplicemente di un’occasione mancata. È quanto accadde proprio a Parigi la sera del 18 maggio del 1922 in cui i magnati inglesi Violet e Sidney Schiff vollero riunire in una serata di celebrazione della modernità le maggiori personalità artistiche del tempo tra cui Strawinskij, Picasso ed appunto Proust e Joyce.

Dal resoconto di quella notte fornito dal libro “Una notte al Majestic” uscito nel 2009 ad opera di Richard Davenport-Hines pare che tutti quanti non fecero altro che snobbarsi l’un l’altro

(http://www.ilgiornale.it/news/joyce-proust-e-picasso-cena-delle-beffe.html)

ma che la delusione maggiore per le aspettative degli organizzatori della storica serata sia venuta proprio dal rapporto gelido tra Proust e Joyce. Ecco come è stato sintetizzato da Alain Botton nel testo: “Come Proust può cambiarvi la vita”:

«Nel 1922, i due scrittori erano a una cena mondana al Ritz (in realtà, come detto, si trattava del Majestic n.d.r.) in onore di Strawinskij, Diaghilev e della compagnia dei Balletti Russi, in occasione della prima del Renard di Strawinskij. Joyce arrivò in ritardo e senza smoking. Proust tenne la sua pelliccia per tutta la serata. Fu lo stesso Joyce a raccontare più tardi, a un amico, ciò che accadde quando vennero presentati l’uno all’altro: La nostra conversazione si è limitata unicamente alla parola “No”. Proust mi chiese se conoscevo il duca tal dei tali. Io dissi “No”. La nostra ospite chiese a Proust se aveva letto questo o quel passaggio dell’Ulisse. Proust disse: “No”. E così di seguito. Dopo cena, Proust prese il suo taxi con i suoi ospiti, Violet e Sidney Schiff, e senza chiedere il permesso Joyce salì con loro. Per prima cosa aprì il finestrino, poi accese una sigaretta: due gesti che potevano rivelarsi mortali per Proust. Durante il viaggio, Joyce guardò Proust senza dire una parola, e Proust parlò in continuazione senza rivolgere una parola a Joyce. Quando arrivarono all’appartamento di Proust, in rue Hamelin, Proust prese da parte Sidney Schiff e disse: “per favore, chiedete a Monsieur Joyce di permettere al mio taxi di portarlo a casa”. E il taxi fece così. I due non si sarebbero incontrati mai più. Se il racconto ci sembra assurdo, è perché si pensa a ciò che questi due scrittori avrebbero potuto dirsi. Non è poi così raro che una conversazione muoia sul nascere, ma è più sorprendente e molto più spiacevole che questo avvenga agli autori dell’Ulisse e della Recherche seduti insieme sotto gli stessi lampadari del Ritz.»

Chissà forse tanta ostentata antipatia e diffidenza sarà stata causata dall’atteggiamento snob di Proust (è noto che la pubblicazione  di “Dalla parte di Swann” fu inizialmente rifiutata dalla casa editrice NRF di Gaston Gallimard che ritenne Proust poco più di un dilettante snob. Ed anche in seguito, una volta pubblicato, fu accolto molto tiepidamente da diversi critici del tempo che lo giudicarono un’immensa divagazione da parte di un aristocratico vittima di se stesso e del suo stile di vita) ma forse sarà dipesa anche da ciò che in realtà pensava Joyce dell’opera di Proust:

« (Proust) …. è l’autore francese più importante dei nostri giorni… il migliore degli scrittori francesi moderni, e sicuramente nessuno ha spinto la moderna psicologia più lontano, o a tale profonda raffinatezza. Io penso tuttavia che avrebbe fatto meglio a continuare a scrivere come all’inizio, perché ricordo di avere letto una volta alcuni brevi racconti in un libro intitolato  Les plaisirs et le jours,  studi della società parigina del ‘900, e che ce n’era uno  Mélancolique Villégiature de Mme de Breyves  che mi impressionò molto. Se avesse continuato a scrivere in quel modo, penso avrebbe scritto le migliori novelle della nostra generazione. Invece, si è lanciato nella Recherche du temps perdu, che soffre di iper-elaborazione… E’ uno scrittore speciale, lo ammetto, nonostante scriva di decadenti aristocratici. Io lo colloco accanto a Balzac e Thackeray… Non c’è sperimentazione, le sue innovazioni erano necessarie per esprimere la vita moderna così come lui la vedeva. Così come la vita cambia, lo stile per esprimerla deve cambiare anch’esso… Lo stile di Proust trasmette una impercettibile ma inesorabile erosione del tempo che è il motivo della sua opera.»  Da: Arthur Power – Conversation with James Joyce, (1922)

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Pernille Blume e quel sottile confine tra ambizione e presunzione

La retorica di certa letteratura o del cinema di Hollywood vuole che spesso siano state esaltate storie di sport in cui vittorie epiche fossero capaci di valorizzare virtù come la tenacia o la fede incrollabile nei propri mezzi così pubblicizzate in una società competitiva come la nostra ed alle quali alla fine è difficile non affezionarsi.

(https://dostoeskijedintorni.wordpress.com/2018/08/14/favole-dello-sport-2/)

Alcuni hanno scelto di raccontare grandi sconfitte, forse più interessati a far leva su quel segreto senso di rassicurante compiacimento che danno i fallimenti altrui − più sono grandi e maggiore ne è l’effetto consolatorio… −, sentimento comunissimo ma che, stranamente, non ha un nome. È quella singolare forma di curiosità un po’ morbosa e voyeuristica che viene cavalcata per giorni e giorni dai media a caccia di audience nel riportare le notizie di qualche disgrazia. La stessa che in autostrada provoca rallentamenti di per sé inspiegabili solo perché nella corsia a fianco si è verificato un incidente.

Altri ancora (Osvaldo Soriano, per citarne soltanto uno, ma ho in mente anche Sorrentino e il personaggio di Maradona in “Youth”) hanno cercato in certi magnifici ritratti di perdenti il fascino e la poesia della parabola discendente, dell’inappellabilità della sconfitta.

Raramente, almeno che io ricordi,  sono state raccontate storie di sport capaci di trarre da una sconfitta esempi di vita così come per le vittorie. Eppure poche vicende come quelle create dallo sport sono in grado di certificare con cronometrica esattezza il fallimento di certe miserie umane.

È il caso di quanto è successo ai recenti europei di nuoto di Glasgow alla danese Pernille Blume, oro alle olimpiadi di Rio 2016 nei 50 metri stile libero, molto nota anche per la sua avvenenza. Alla manifestazione europea arriva accreditata di uno straordinario stato di forma ed infatti inizia facendo vincere alla propria nazionale un bronzo nella staffetta 4×100 stile libero grazie ad un tempo personale di 52.83 che è tra le migliori prestazioni stagionali.

Si arriva quindi al giorno della “sua” gara, i 50 metri stile libero, in cui la vera (ed unica) avversaria è la svedese Sarah Sjoestroem che lo scorso anno è riuscita a sconfiggerla ai mondiali di Budapest facendo segnare un 23.67 che le è valso il nuovo record del mondo. In semifinale la Blume nuota in 23.85 (miglior tempo dell’anno) superando la svedese che nell’altra semifinale si ferma a 23.92. È dunque la principale favorita per l’oro che alcuni prevedono possa vincere scendendo sotto il record della Sjoestroem. In effetti in finale la Blume si migliora scendendo ancora una volta sotto il tempo che le aveva valso l’oro a Rio ed arrivando ad 8 centesimi dal record della svedese che però è capace di nuotare in 23.74 bruciandola così per un solo centesimo.

Comprensibile la delusione della Blume ma i 100 metri in programma tre giorni dopo, alla luce anche dell’ottimo tempo fatto segnare nella finale della staffetta, appaiono una perfetta occasione di rivincita. Nei turni di qualificazione del mattino vince la propria batteria con estrema facilità. Il suo tempo di 52.97, ottenuto quasi senza mettere le gambe nei 50 metri finali, vale diversi decimi in meno ed è nettamente il migliore di tutte le altre batterie (con 48 centesimi sul secondo miglior crono appartenente alla Sjoestroem). Viene perciò pronosticata un po’ da tutti anche in questo caso come la grande favorita per la vittoria finale.

Nel pomeriggio sono in programma le due semifinali. Nella prima la Sjoestroem con 52.67 dimostra che anche nei 100 l’oro sarà una faccenda privata tra lei e la Blume. Arriva quindi il momento della seconda semifinale in cui la danese ha come avversarie competitive in pratica solo la francese Charlotte Bonnet alla quale ha dato 93 centesimi nelle batterie del mattino. Si sente – comprensibilmente − la finale in tasca ed allora le balena in testa un’idea.  Chissà quando le sia venuta esattamente, se sul momento o dopo aver visto i risultati del mattino o durante i giorni trascorsi a rimuginare recriminando sul centesimo che le è costato quell’oro che da quando è stata sconfitta a Budapest stava attendendo come occasione di riscatto.

Sta di fatto che sale sul blocco di partenza per la semifinale dei 100 metri con la segreta intenzione di stabilire il record del mondo nei 50. A vederla spingere ad una frequenza forsennata subito dopo la risalita dalla subacquea i commentatori di Eurosport sono allibiti. Compie la prima respirazione più o meno ai 30 metri ed arrivata al termine della prima vasca invece di effettuare la virata tocca con la mano sul sensore per poi ripartire (perdendo così diversi metri rispetto alle sue avversarie).

Il suo tentativo di record del mondo fallisce: con 23.98 fa registrare un tempo più alto anche di quello nuotato nella finale di tre giorni prima. Poco male, è quello che deve aver pensato nel risolversi a buttarsi in questo tentativo: tanto le è sufficiente un ritorno intorno ai trenta secondi per arrivare comunque tra le prime ed entrare in finale. Ma le cose non vanno così. Accade invece che paghi lo sforzo e la perdita di tempo in virata ed alla fine faccia segnare un tempo di 54.71 che probabilmente non avrebbe fatto neanche con dei pesi legati alle caviglie.

Risultato: sesta nella propria gara (vinta dalla Bonnet) e decima in totale. Morale: esclusa dalla finale che sarà vinta il giorno dopo da Sarah Sjoestroem con 52.93 (vale a dire con un tempo più basso di soli 4 centesimi di quello nuotato in scioltezza dalla Blume nelle batterie di qualificazione, più alto di 1 decimo del 52.83 fatto registrare nella finale della 4×100 stile libero e di 1 secondo e 16 centesimi di quello che, con un sensazionale 51.77, la danese farà registrare l’ultimo giorno di gare nella finale della staffetta 4×100 mista regalando l’argento alla sua nazionale).

Al termine della manifestazione la Blume si porterà a casa 2 argenti ed un bronzo, un bottino che farebbe la felicità della maggior parte degli atleti. Non per la danese, però, che chissà per quanto tempo si sentirà bruciare al pensiero non tanto dell’oro nei 50 perso per un centesimo ma di quello buttato via nei 100 esclusivamente per il proprio atteggiamento superbo ed irrispettoso.

Muhammad Alì, Zlatan Ibrahimović, Usain Bolt. Esistono indubbiamente esempi di atleti sicuri di sé ai limiti dell’arroganza (a volte anche oltre…) e ciononostante vincenti. Ma rappresentano pur sempre dei casi isolati. Al pari del mito dell’atleta più debole che sconfigge il campione ritenuto imbattibile, novello David contro Golia, o quello di Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino, capace di vincere lottando contro tutto e tutti.

Eccezioni. Mentre, come dimostra la vicenda di Pernille Blume, nello sport così come nella vita di tutti i giorni la regola è ben diversa. E cioè che ad essere divorati da un’insoddisfazione “malata” che porti a guardare pieni di rimpianto continuamente al passato ed a quello che si è perduto si finisce rimanendo con ben poco in mano. Perché il confine tra ambizione e presunzione è forse il più sottile che ci sia…

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