Giorni fa mi è capitato di assistere ad una puntata di “Lezioni d’Autore”, programma del canale LaF, in cui Alessandro Baricco ragionava sul senso profondo della letteratura; la capacità dei grandi scrittori di definire i bordi, spesso per noi così nebulosi, dei grandi aspetti della nostra vita con il loro tratto caratteristico fatto di parole. È questo, in fondo, il ruolo che affidiamo ad un grande romanzo: seguire le riflessioni dell’autore su temi fondamentali aiutandoci ad interrompere per qualche momento il flusso dei nostri rimuginamenti. Un concetto peraltro molto vicino a quello espresso già tanti anni fa dallo stesso Baricco, riprendendo Pavese, nello storico, e per me fondamentale, programma televisivo “Totem”. La possibilità, leggendo, di ritrovare tra le pagine di un libro qualcosa che riconosciamo come profondamente nostro di cui riappropriarci.
A titolo di esempio Baricco affrontava il tema della leggerezza. Quella con la elle maiuscola. E citava due esempi. Il primo è “Il circolo Picwick” per quella inimitabile capacità di Dickens di offrire un affresco dei vizi e delle virtù di quell’epoca narrando le (dis)avventure di un gruppo di sfaccendati benestanti che se ne andavano in giro per tutta l’Inghilterra. Un romanzo che per cinquantasette capitoli e oltre mille pagine attraverso una prosa straordinariamente elegante e raffinata gira in definitiva intorno al nulla. Quasi fosse una Ferrari che con il rombo del suo motore turbo si ritrovi a girare in città a venti all’ora.
Il secondo esempio citato da Baricco è invece “Il giovane Holden” con cui Salinger, all’inizio degli anni cinquanta, inventa il linguaggio di un quasi adolescente un po’ ribelle che arriverà a dar voce al moto di protesta di un’intera generazione e che andrà montando fino al sessantotto. Ma non è soltanto la voce ad aver reso questo romanzo immortale quanto l’abilità di Salinger nel soffermarsi con una o due frasi, dopo vari giri concentrici, su qualche riflessione che scende giù in profondità per poi portare il lettore immediatamente da un’altra parte. Esempio inimitabile della capacità di saper toccare ciò che c’è di fondamentale con leggerezza.
“(…) Con tutto che era domenica e Phoebe non poteva essere là con la sua classe e via discorrendo, e che il tempo era così brutto e umido, mi feci tutto il parco a piedi fino al Museo di Storia Naturale. Sapevo che era quello il museo di cui aveva parlato la ragazzina con la chiave dei pattini. La conoscevo a memoria, quella lagna del museo. La scuola di Phoebe era la stessa dove andavo io da bambino, e non facevano che portarci al museo. Avevamo quella maestra, la signorina Aigletinger, che ci portava là tutti i maledetti sabati o quasi. Certe volte ci portava a vedere gli animali, certe volte gli oggetti che gli indiani avevano fatto secoli prima. Stoviglie, cestini di paglia e tutta roba così. Mi sento molto felice quando ci ripenso. Ancora adesso. Mi ricordo che dopo aver guardato tutti quegli oggetti indiani, di solito andavamo a vedere un film in quel grande auditorium. Colombo. Ci facevano vedere sempre Colombo che scopriva l’America, che sudava sette camicie per convincere Ferdinando e Isabella a dargli i soldi per comprare le caravelle e poi i marinai che si ammutinavano e via dicendo. A noi non ce ne importava un accidente del vecchio Colombo, ma eravamo sempre stracarichi di caramelle e di gomma eccetera eccetera, e nell’auditorium c’era un odore così buono. Un odore come se fuori piovesse anche quando non pioveva, e voi eravate nell’unico posto piacevole, asciutto e caldo del mondo. Mi piaceva, quel maledetto museo. Mi ricordo che per andare all’auditorium bisognava passare per la Sala degli indiani. Era una sala lunga lunga, e bisognava parlare bisbigliando. Prima entrava la maestra e poi tutta la classe. Si andava in fila per due, così ognuno aveva un compagno. Il più delle volte io stavo vicino a quella ragazzina che si chiamava Gertrude Levine. Voleva sempre tenerti per mano, e aveva sempre la mano appiccicosa o sudaticcia o che so io. Il pavimento era tutto di pietra, e se tenevi in mano le palline e te le lasciavi scappare, rimbalzavano come matti per tutta la sala e facevano un rumore d’inferno, allora la maestra faceva fermare tutti e tornava indietro a vedere che diavolo succedeva.Però non si arrabbiava mai, la signorina Aigletinger. Poi si passava vicino a quella lunghissima canoa da guerra, era lunga suppergiú quanto tre dannate Cadillac messe in fila, con una ventina di indiani dentro, certi che remavano, certi che invece stavano là con la grinta feroce senza far niente, e tutti quanti avevano la faccia dipinta coi colori di guerra. In fondo alla canoa c’era un tipo spaventoso con una maschera sul viso. Era lo stregone. Mi faceva venire la pelle d’oca ma mi piaceva lo stesso. E un’altra cosa, se nel passare toccavate una delle pagaie o quello che era, uno dei guardiani ti diceva: «Non toccate niente, bambini», ma lo diceva sempre con la voce gentile, non come un maledetto sbirro o che so io. Poi si passava vicino a quella enorme bacheca di vetro, con dentro degli indiani che strofinavano pezzetti di legno per accendere il fuoco, e una squaw che tesseva una coperta. La squaw che tesseva la coperta era un po’ chinata in avanti e le si vedeva il petto e tutto quanto. Noi allungavamo il collo, anche le femmine, perché erano bambine e di petto non ne avevano più di noi. Poi, prima di entrare nell’auditorium, proprio vicino alle porte, si passava davanti a quell’esquimese. Stava seduto davanti a un buco in quel lago tutta gelato e ci pescava dentro. Proprio vicino al buco c’erano un paio di pesci che aveva già presi. Ragazzi, quel museo era pieno di bacheche. Ce n’erano ancora di più al piano di sopra, con dentro dei cervi che si abbeveravano alle fonti, e uccelli che migravano verso il sud per l’inverno. Gli uccelli più vicini erano impagliati e sospesi a fili di ferro, quelli in fondo invece erano solo dipinti sul muro, ma tutti quanti pareva proprio che stessero volando verso il sud, e se piegavate la testa e li guardavate un po’ dal sotto in su pareva che avessero ancora più fretta di volare al sud. La cosa migliore di quel museo era però che tutto stava sempre allo stesso posto. Nessuno si muoveva. Potevi andarci centomila volte, e quell’esquimese aveva sempre appena finito di prendere quei due pesci, gli uccelli stavano ancora andando verso il sud, i cervi stavano ancora abbeverandosi a quella fonte, con le loro belle corna e le belle, esili zampe, e quella squaw col petto nudo stava ancora tessendo la stessa coperta. Nessuno era mai diverso. L’unico a essere diverso eri tu. Non è che fossi molto più grande né niente di simile. Non era proprio questo. Era solo che eri diverso, ecco tutto. Stavolta avevi addosso il soprabito, magari. Oppure il bambino che era stato vicino a te l’ultima volta si era preso la scarlattina e ora avevi un altro compagno. Oppure non era la signorina Aigletinger ad accompagnare la scolaresca ma una supplente. Oppure avevi sentito papà e mamma che litigavano come due forsennati nella stanza da bagno. O per la strada eri appena passato vicino a una di quelle pozzanghere dove la benzina fa l’arcobaleno. Voglio dire, eri diverso, per una ragione o per l’altra – non so spiegare quello che ho in mente. E anche se sapessi farlo, non sono sicuro che ne avrei voglia. (…)”
J.D. Salinger – Il giovane Holden