La rabbia e l’orgoglio (ai tempi del Corona virus)

Siamo sempre stati abituati a sederci a tavola ad ora di cena o a sdraiarci sul divano con il telecomando in mano come se fossero le nostre personali postazioni di bird-watching delle tragedie altrui. Ci siamo illusi che informarci, farci un’opinione ma anche empatizzare, scendere in piazza o perfino donare denaro equivalesse ad essere partecipi contro ingiustizie o calamità. Ma non volevamo renderci conto che rientrati in casa, pigiato il tasto off del telecomando, tutte queste ingiustizie e calamità alla fine non intaccavano più di tanto una quotidianità fatta comunque di lussi e privilegi. Ci illudevamo di essere società solo in virtù di una solidarietà spesso ipocrita e pelosa, proprio perché poi un po’ tutti, chi inconsapevolmente, chi dichiaratamente, ci accucciavamo tra i cuscini del nostro divano sollevati di starcene al di qua dello schermo.
Bè, questa volta non è andata così. Gli altri, le vittime, i protagonisti dei commenti pietosi dei notiziari ora siamo noi. E la gara a scansarsi che, come da abitudine, abbiamo fatto tutti quanti in-dis-tin-ta-men-te da febbraio in poi (prima un po’ tutti con la Cina, poi il resto d’Italia con la Lombradia, poi l’Europa con noi italiani, e infine il resto del mondo con noi europei) è fallita miseramente.
Risultato? Un “volemose bene” tanto finto quanto provvisorio che prelude ad un inevitabile ed avvilente “cane mangia cane” nel prossimo futuro. I segnali ci sono già tutti: la chiusura delle frontiere ma anche la rinuncia alla democrazia dei governi, la corsa all’aggiramento delle regole condita dal solito fritto misto di allarmismi, fake news, tormentoni ed amenità sul web, perché egoismo e idiozia sono anche più contagiose del Covid-19.
Come se bastasse illuminare i monumenti di tricolore o cantare l’inno dal balcone per illuderci di avere un’identità nazionale e una coscienza civile. Come se commuoversi davanti all’eroismo di chi sta combattendo una battaglia disperata tra le corsie servisse a curarci della povertà morale di una società fondata sulla corsa a possedere cose e che ha come unica religione l’esposizione di sé.
Mi piacerebbe poter pensare che alla fine, quando la paura sarà finita, tutto questo ci avrà insegnato qualcosa ma ho il sospetto che invece ci scopriremo tremendamente impoveriti. Non solo economicamente.
A meno che…

כאשר החושך מסתיר את האור תן לנשמתך להאיר את העולם

Quando l’oscurità nasconde la luce, lascia che la tua anima illumini il mondo.

Brindisi di Capodanno

Dostoevskij e dintorni

(…) Quando a qualche minuto dal brindisi di mezzanotte Stefano si avvicinò sorridendo con due calici di champagne, lei gli disse guardandolo intensamente con occhi pieni di rammarico:

« Piuttosto che gli auguri dovrei farti le mie scuse ».

« Anch’io dovrei scusarmi con te di tante cose ».

« No tu non devi chiedere scusa di nulla » lo interruppe Claudia.

« Invece si », insistette Stefano, « dovevo cercare i tuoi bisogni più profondi e non smettere mai di ascoltarli. A volte ti ho lasciata sola di fronte alle cose che della nostra vita insieme ti soffocavano. Tu sei uno spirito libero, Claudia. Amarti vuol dire donarsi a te senza reclamare niente in cambio. Dovevo accettare di appartenerti senza che tu mi appartenessi. Dovevo lasciarti respirare perché tu hai bisogno come l’aria di quegli spazi vitali che sono tuoi e solo tuoi. Mi sono perso dietro a decine…

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Le disavventure di un non più giovane scrittore – parte 3. Brutta.

Dostoevskij e dintorni

Stava attraversando la strada a pochi metri da lui con passo spedito, disinvolta. Avrà avuto poco più di quarant’anni, i capelli corti di un nero melangiato dalle prime avanguardie della canizie. Il trucco pesante, un paio di lunghi orecchini pendenti che incorniciavano il naso prominente sotto a degli occhiali dalla pesante montatura alla Le Corbusier. Rideva rumorosamente, sicura dell’effetto delle sue parole sull’amica che camminava al suo fianco. Fu allora che gli balenò quell’idea capace di risvegliarlo dal labirinto di pensieri in cui si era perso già da un quarto d’ora.

Se fosse toccato a lui non avrebbe mai avuto la forza di essere una donna brutta.

Un brivido lo gelò, quel moto di sotterranea repulsione di fronte a un pensiero di cui ci si vergogna. Si era presentato a tradimento, come il mal di denti, illuminato da un flash che lo aveva sorpreso là dove era sempre stato. Che…

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Roma

La vita quotidiana all’interno di un elegante appartamento del quartiere Roma di una famiglia borghese con quattro figli viene messa sottosopra dall’abbandono del tetto coniugale del capo famiglia.  Il tutto raccontato dagli occhi semplici ed ingenui della cameriera, Cleo, la cui vicenda personale (rimasta incinta viene abbandonata dal fidanzato appena viene messo a conoscenza della gravidanza) s’intreccia a quella della famiglia con sullo sfondo gli sconvolgimenti sociali della Città del Messico del 1970.     

La trama del film che ha meritatamente trionfato alla 75° mostra di Venezia potrebbe esaurirsi in queste poche righe se non si rischiasse di sminuire una pellicola che l’occhio sensibile di Alfonso Cuaròn riesce a rendere un capolavoro destinato a rimanere nella memoria per chissà quanto tempo. La maestria nel padroneggiare i movimenti di camera e la meravigliosa fotografia realizzata attraverso un bianco e nero pieno di mezzi toni e di contrasti catturano i sensi dello spettatore che per tutti i 135 minuti di proiezione viene emozionato da quella che in alcuni momenti appare come pura poesia narrata per immagini.

Cuaròn sceglie una vicenda comune ed un’umanità semplice per dipingere il suo affresco ricco di immagini dall’espressività sconvolgente. Non a caso sono diverse le scene che rimangono negli occhi: il girovagare di Cleo nel fango del barrio alla ricerca di Fermin, il polveroso addestramento di arti marziali, gli scontri a seguito della manifestazione studentesca visti in controluce con la vicenda della rottura delle acque di Cleo, il doppio piano di ripresa madre-figlia in sala parto. Per non parlare dei carrelli del picnic con l’esercitazione di tiro al bersaglio e la ricerca per la strada di Paco, tutte sequenze che regalano momenti di grandissimo cinema.

Ed in questo senso appare particolarmente felice anche la circolarità che lega l’inizio alla fine della pellicola dove nell’inquadratura iniziale il riflesso nell’acqua saponata che scorre sul pavimento rivela l’immagine del tetto dell’abitazione con sullo sfondo il passaggio di un aereo che ritroveremo nella scena conclusiva. Sta infatti nel ritorno alla routine delle faccende domestiche (utilizzate esattamente come in un testo si fa con la punteggiatura) il segno della ritrovata normalità della vita all’interno della casa ma anche in quella personale di Cleo pienamente inserita nella cerchia di affetti di tutta famiglia.

Semplicemente imperdibile.

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LORO 1

Sorrentino è uno di quei registi che dividono. Ci sono quelli che lo amano e quelli che lo odiano (molto spesso a priori…). Personalmente sto nel campo di coloro che lo apprezzano. Nonostante il largo ricorso a sequenze ridondanti e (a volte) autoreferenziali, i suoi film hanno tuttavia il pregio di una cifra stilistica assolutamente personale dove il racconto per immagini, spesso allegoriche ed oniriche, si fonde ad uno sguardo lucido ed impietoso sulla nostra società. Nessuno come lui è capace di mettere a nudo l’ipocrisia e la volgarità dalle quali siamo assediati nella nostra vita di tutti i giorni.

Dopo i felici intermezzi della serie tv “The young pope” (dove il racconto si muoveva continuamente sul filo della ricerca del sorprendente e del paradossale) e la riflessione filosofica sui doni elargiti dalla giovinezza di “Youth”, Sorrentino torna a dedicarsi più propriamente al “suo” cinema riprendendo i temi che evidentemente sente maggiormente nelle sue corde.

“Loro” (di cui è attualmente nelle sale la prima parte che sarà seguita a breve dall’uscita della seconda) può essere considerato in effetti l’ultimo capitolo di una trilogia sulla miseria e l’arroganza del potere (sia politico che economico) che abbraccia sia “Il divo” che “La grande bellezza”. Come già nei precedenti, anche qui attorno alle maschere deformate e spesso caricaturali dei protagonisti − quelli che contano, “loro”, appunto… − fiorisce tutto un sottobosco di personaggi felliniani non meno centrali nell’economia della tela tessuta in sede di sceneggiatura.

Ed è proprio da questa umanità cinica e materialista, malata di un arrivismo privo di valori e moralità, che parte il racconto di “Loro”. Personalmente ho molto apprezzato l’idea fondante di questa prima parte di volersi avvicinare ad un mondo pieno di contraddizioni come quello berlusconiano procedendo progressivamente, quasi a cerchi concentrici. La gran parte del film, infatti, è focalizzata su tutta quella categoria di miserabili – tra i quali spiccano l’imprenditore rampante/procuratore di prostitute (Scamarcio), il politico servile e traditore (Bentivoglio) e la prostituta di alto bordo (Smitniak) – che vengono seguiti nel loro districarsi tra fiumi di cocaina, soldi e sesso mercenario pur di arrampicarsi fino a “Lui”.

Come sempre Sorrentino non perde occasione di far ricorso ad immagini allegoriche − la pecora, immagine della purezza e (forse) dell’onestà, che entrata per caso nella villa schiatta sotto il peso del lusso e della banalità della tv commerciale – ed all’ironia (le condoglianze di Berlusconi ad una pecora per la cognata deceduta e gli insegnamenti di vita al nipote).

Riguardo alla luce satirica con cui viene restituito Berlusconi prima di esprimere un giudizio definitivo credo sia meglio attendere la seconda parte in cui è da presumere sia finalmente più centrale. L’unica considerazione che al momento viene da fare è che se ad una prima lettura l’ennesima interpretazione magistrale di Servillo può apparire caricaturale nello stile dell’Andreotti de “Il divo” (nella prima scena in cui appare Berlusconi è comicamente travestito da odalisca e truccato pesantemente) la realtà è che in fondo è stata soltanto calcata un po’ la mano su un personaggio dagli atteggiamenti caricaturali già di per sé.

Un’ultima annotazione sulla fotografia nitida ed a tratti abbagliante di Luca Bigazzi che è a tutti gli effetti uno degli elementi maggiormente riusciti del film.

In fremente attesa della seconda parte…

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Nuotando

Solo quando finalmente varcò la porta d’accesso alla zona della piscina e le sue narici furono raggiunte dall’odore del cloro, il suo nervosismo si dissolse.

A quanti ricordi era legato quel profumo amaro e sottile. Il nuoto era stato la grande passione della sua gioventù. L’aveva portata a gareggiare in diverse occasioni per il campionato italiano e per due volte era stata a un passo dal giungere in nazionale. Ancora adesso, a trentadue anni, appena poteva s’imponeva di infilare tra i suoi impegni lo spazio per una nuotata.

La vasca, semideserta al termine dei corsi dei bambini, esprimeva una tranquillità irreale. L’arrivo dei dopolavoristi del nuoto libero l’avrebbe presto riempita di nuovo facendo svanire tra schizzi e schiamazzi quel senso di muta sospensione.

Si tuffò godendo dell’irrazionale entusiasmo che le donò immergersi nello specchio d’acqua immoto. Il silenzio che regnava fuori e dentro la superficie l’avvolse per qualche breve istante.

Riscaldamento. Dieci vasche.

Nuotando in apnea allungò il suo corpo con movimenti ampi e lenti. Una sensazione di libertà e di padronanza di sé penetrò nella sua pelle. Bracciata dopo bracciata, man mano che sentiva spezzarsi il fiato e scaldarsi il suo corpo, il piacere dell’esercizio fisico cominciò lentamente a depurarla. Si sentì finalmente pacificata. Era come se, insieme all’acqua che stava remando dietro di sé, stesse spazzando via le scorie e le inquietudini che, dopo averla assalita per tutto il giorno, l’avevano seguita fin dentro lo spogliatoio. Da un paio di mesi aveva cominciato ad avvertire la presenza di un’ombra invisibile che ovunque andasse non l’abbandonava. Solo nel momento in cui se ne era liberata aveva avuto la percezione di quanto fosse opprimente il macigno che gravava continuamente sulle sue spalle.

Dorso. Due serie da quindici vasche.

Con un’energica spinta delle gambe si separò dal bordo della vasca e incurvò la schiena spingendo il ventre verso l’alto sul filo dell’acqua. Le spalle presero a mulinare le braccia con cadenza regolare mentre sopra di sé le capriate metalliche della copertura passavano rapidamente in sequenza una dietro l’altra. Le sembrò che rappresentassero gli anni della sua vita e la velocità con cui scorrevano sotto i suoi occhi la stessa con la quale erano trascorsi. Si rivide bambina e poi adolescente a osservare sopra di sé il tetto della vecchia piscina dove si era allenata per anni. Ripensò alle fantasie che si rincorrevano allora nella sua testa mentre macinava i chilometri.

Davvero non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi dopo anni a fendere l’acqua allo stesso modo, con i palmi delle mani rivolti all’infuori,  vivendo una vita così lontana dai sogni di allora. Ricordi e illusioni cominciarono ad affollarsi nella sua testa sovrapponendosi gli uni agli altri. Quante energie sprecate, quanto tempo scivolato via dietro ai mille voli impossibili in cui si era persa nella sua fantasia.

Era il pensiero di quegli ultimi anni trascorsi senza più un obiettivo o un’idea a ferirla. Anni smarriti che ora cominciavano a soffocarla, a ferirla, a umiliarla.

Tempo. Correva troppo veloce per quelle che erano le sue capacità di viverlo. Lo sentiva sfuggirgli come acqua tra le mani. Maledetto tempo. Non sapeva come gestirlo, corteggiarlo, renderlo suo alleato. E se proprio le era impossibile amarlo che riuscisse almeno a non odiarlo.

Crawl. Due serie da venticinque vasche.

I gomiti piegati a quarantacinque gradi si sollevarono alti fuori dalla superficie per poi tornare subito a distendersi. Le mani aperte con le dita serrate, inclinate ad angolo acuto, s’immersero alternate sotto il peso delle braccia che rullavano attorno alle spalle. Nello stirare tutta la parte superiore del corpo alla ricerca dell’acqua lontana fu investita di nuovo da un’ondata di benessere. Era una di quelle sensazioni volatili, destinate a durare solo un attimo; come quando tiri un rovescio lungolinea che va a infilarsi all’incrocio delle righe o vedi gli occhi che ami illuminarsi per qualcosa di divertente che hai detto. Quel senso di soddisfazione che avverti quando ti accorgi che stai facendo qualcosa nel modo corretto, proprio come va fatta, al meglio. Claudia si domandò da quanto tempo non provava una simile emozione.

Pensò agli sguardi muti che ultimamente si vedeva rivolgere dai suoi genitori, da suo marito, dai suoi figli. Occhi scontenti, severi, che non facevano altro che denunciare quanto per loro fosse inadeguata come figlia, come moglie, come madre e come donna. A volte, schiacciata dall’insoddisfazione, si sentiva ancora bambina. Un’ adolescente capricciosa e ribelle quando contraddiceva suo marito solo per contestarne l’autorità  o una bimba tormentata e insicura quando si accorgeva di ricercare dai propri figli quelle risposte che sentiva di non avere.

Col sommarsi delle vasche l’una all’altra i suoi pensieri cominciarono via via ad alleggerirsi. Le braccia allentarono il loro ritmo, le gambe si fecero più pesanti. Claudia s’impose di concentrarsi soltanto sul respiro.

Forse leggeva sui volti dei familiari espressioni inesistenti, forse vedeva tutto più nero di quel che fosse in realtà. Fino a quando avrebbe continuato a intestardirsi nel cercare in superficie la tranquillità ed il silenzio che avvertiva sott’acqua?

Massimo Di Veroli, Giugno, anime inquiete, L’Erudita, pp. 36/38

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Il nonno di Giulia

Un bacio commosso almeno quanto imbarazzato da parte di Giulia che non era mai stata disinvolta nell’abbandonarsi in pubblico ai gesti di affetto, sancì la fine della cerimonia.

La prima persona che si avvicinò a lei fu sua madre che raggiante la strinse in un caloroso abbraccio. Quindi, tra l’invadente sollecitudine delle congratulazioni dei suoceri ed i baci affettuosi delle sue sorelle e dei loro mariti, ecco farsi largo a fatica suo nonno Aldo.

Giulia piena di commozione gli si fece incontro con tenera premura. Nutriva un amore sconfinato per quel dolcissimo novantenne. I suoi folti capelli d’argento mal si accordavano con il pallido colorito sul quale risaltavano due occhi incredibilmente buoni e sinceri. Nel suo sguardo si poteva tranquillamente leggere tutto di quel vecchio. S’indovinava la commozione per il matrimonio della nipote prediletta ma anche la consapevolezza che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima cerimonia alla quale avrebbe assistito.

Ci sono uomini che invecchiando s’immalinconiscono oltre misura, feriti dall’età avanzata che vivono con amarezza. Aldo aveva pudore del suo incedere incerto, del bisogno di appoggiarsi ad un bastone, dei movimenti allentati, di dover chiedere aiuto per cose che giudicava elementari e se ne vergognava. Soprattutto si rammaricava di non sentirsi più lui ma solo il suo stanco ricordo.

Dotato di un talento per il disegno straordinario, da autodidatta aveva fin da giovane ritratto un’infinità di volti, paesaggi e scorci di città. Successivamente, nei ritagli di tempo rubati al suo lavoro, si era dedicato alla pittura ad olio lasciando ai propri familiari un inesauribile patrimonio di tele raffiguranti fontane, carrozzelle con i cavalli, uomini seduti ai tavoli delle osterie e mille altri episodi che ritraevano con passione e poesia squarci di una Roma ormai estinta.

Giulia era legatissima tanto ai quadri ed ai disegni che il nonno le aveva regalato quanto al suo splendido mondo interiore. Uomo di rara sensibilità, sentiva con lui un legame profondo. Nelle sue frequenti visite domenicali lo spingeva a raccontarle le vicende vissute durante la guerra a caccia di qualche dettaglio a lei ancora sconosciuto. Spesso gli chiedeva di mostrargli qualcuno degli innumerevoli schizzi fatti in quel periodo che conservava gelosamente nel suo studiolo.

Amava tutto di lui, dalla sua smisurata modestia alla discrezione d’altri tempi. Avendo cominciato a lavorare a diciassette anni per aiutare i propri genitori, Aldo non aveva potuto terminare le scuole superiori di conseguenza il suo modo di esprimersi era piuttosto semplice. Giulia però non lo aveva mai ritenuto un limite. Al contrario, le appariva l’inevitabile lotta tra il suo vocabolario e l’immensa profondità del suo animo. Ora poi che l’età avanzata lo conduceva spesso ad incespicare nelle parole o ad arrestarsi a metà di un concetto, la tenerezza che avvertiva per lui era infinita.

Quando un giorno, dopo mille insistenze, era riuscita a cavargli un’opinione sincera sul suo fidanzato, quel termine “antipaticuccio” sussurrato con occhi dispiaciuti ed imbarazzati, l’aveva ferita indicibilmente. Ora  quegli stessi occhi si avvicinavano a lei pieni di commozione in attesa di stringerla in un tenero ed affettuoso abbraccio.

(Da: Giugno, anime inquiete – Massimo Di Veroli)

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Brindisi di Capodanno

(…) Quando a qualche minuto dal brindisi di mezzanotte Stefano si avvicinò sorridendo con due calici di champagne, lei gli disse guardandolo intensamente con occhi pieni di rammarico:

« Piuttosto che gli auguri dovrei farti le mie scuse ».

« Anch’io dovrei scusarmi con te di tante cose ».

« No tu non devi chiedere scusa di nulla » lo interruppe Claudia.

« Invece si », insistette Stefano, « dovevo cercare i tuoi bisogni più profondi e non smettere mai di ascoltarli. A volte ti ho lasciata sola di fronte alle cose che della nostra vita insieme ti soffocavano. Tu sei uno spirito libero, Claudia. Amarti vuol dire donarsi a te senza reclamare niente in cambio. Dovevo accettare di appartenerti senza che tu mi appartenessi. Dovevo lasciarti respirare perché tu hai bisogno come l’aria di quegli spazi vitali che sono tuoi e solo tuoi. Mi sono perso dietro a decine di impegni, preoccupazioni e problemi dimenticando che la mia priorità eri e dovevi rimanere solo tu ».

« No, non è di questo che avevo bisogno », rispose Claudia, « sei sempre stato fin troppo paziente con me. Di libertà ne ho sempre avuta tanta e l’ho utilizzata soltanto per contorcermi su me stessa in cerca di chi fossi o sarei potuta essere. Ma questo è un argomento troppo lungo e doloroso. In ogni caso tu non c’entri nulla. Ero io il problema, non tu ».

« Può darsi, ma io avrei potuto evitare di farti sentire incompresa e lasciarti sola con le tue insoddisfazioni. »

« No, smettila di colpevolizzarti! Sono stata io la responsabile di tutto. Soprattutto di aver dimenticato chi avevo accanto e di non aver saputo apprezzarti come meritavi » confessò Claudia con amarezza. Quindi continuò come se a quel punto non potesse più trattenersi: « Non so perché ma ad un certo punto non vedevo più te ma qualcuno identico a te, che parlava come te, si muoveva come te e che io non sopportavo. Non era per qualcosa che avessi fatto o che, viceversa, avessi smesso di fare. Ero io che volevo vederti così per sentirmi meno orribile. Avevo un assoluto bisogno di credere che se eri tu che non riuscivi a comprendermi allora non ero io il problema. Soltanto quando sono rimasta in balia di me stessa ho capito come fosse vero esattamente il contrario. E’ stato vivendo al tuo fianco e grazie al tuo sostegno che ho potuto costruire quel poco di buono che ho realizzato nella mia vita ».

A quelle parole Stefano abbassò gli occhi. Intorno a loro gli altri invitati con le bottiglie in mano, a pochi secondi dallo scoccare della mezzanotte, già avevano cominciato il conto alla rovescia in preda all’annuale fanciullesco entusiasmo.  Quindi, con un filo di voce appena udibile a causa del frastuono provocato da tanti elettrizzati stappatori di champagne, disse: « Sei sempre in tempo per tornare indietro. Io non ho mai smesso  di amarti ».

« Ma sei pazzo? » sorrise imbarazzata Claudia. «  Già ho rovinato dodici anni della tua vita! ».

«  Lo sai che mi piace soffrire ».

« Ti pentiresti dopo una settimana al mio primo rodimento ».

« Be’, tu mettimi alla prova… ».

« E cosa gli raccontiamo ai ragazzi? » rispose Claudia guardandolo negli occhi lusingata ed incredula.

Quando la mezzanotte era già scoccata da un po’, i brindisi tutti consumati e gli auguri tra gli ospiti in pieno svolgimento, nessuno badò al bacio tra Stefano e Claudia che inaugurò insieme al nuovo anno anche il loro nuovo inizio. (…)

                                                                        Massimo Di Veroli – “Giugno, anime inquiete”

Lettera aperta al motociclista urbano

Caro motociclista che 5 minuti fa sul lungotevere in tuta Dainese appena scorgevi in mezzo al traffico 10 metri liberi ne approfittavi per girare a manetta la manopola del gas e zigzagare a 90km/h tra le macchine. Io lo capisco che l’assordante rombo della tua marmitta ti da un fremito di eccitazione che rappresenta la tua unica occasione nel corso della giornata di sentirti irresistibilmente maschio. Chissà quante umiliazioni subirai oggi per essere trattato come il coglione che sei mentre adesso hai l’occasione di sentirti almeno per venti minuti come Valentino Rossi. Fai, fai. Poi però non frignare e tirare giù bestemmie se una portiera si apre all’improvviso, una signora cambia di corsia mentre si sta controllando il trucco allo specchietto o uno studente attraversa a testa bassa perché è troppo impegnato a fare il percussionista sul suo smartphone o a cercare pokemon per guardare la strada e tu finisci sull’asfalto a quattro di bastoni. Vai, vai pure avanti. Ci vediamo al prossimo semaforo…

Er bullo de Roma

C’è una discreta letteratura sul “tipo” del gradasso romano. Basti pensare a Rugantino, “er bullo de Trastevere”, la maschera forse più nota del teatro romano o al Marchese del Grillo, il protagonista dell’operetta di Domenico Berardi della fine dell’ottocento. Non si può negare però che rispetto alla tradizione ottocentesca il “topos” del romano arrogante e strafottente ma che alla fine si rivela bonario, magari anche un po’ ingenuo e dal cuore d’oro dal secondo dopoguerra ad oggi sia stato stravolto.

Spesso impietosamente impersonate da Alberto Sordi in alcuni film memorabili della commedia all’italiana la vigliaccheria e la miseria del romano bugiardo, furbetto e truffaldino hanno registrato il degrado morale che a partire dagli anni cinquanta ha contagiato questa città. La generazione dei “palazzinari” con la loro sottocultura della ricerca di un profitto tanto esagerato quanto criminale ne è in questo senso la capostipite. La volgarità e l’ostentazione dello  spregio delle regole con cui questa gente si è arricchita stuprando Roma – e gettando per sempre discredito sulla categoria dei costruttori che qui più che da altre parti si è trovata prima emarginata e poi estromessa dal mercato – è entrata per sempre nel DNA del romano di successo. E se con il passare del tempo ed il ricambio generazionale altrove certi atteggiamenti maleducati sono stati superati non si può non notare che al romano la volgarità gli è rimasta attaccata addosso. Ci siamo tanto assuefatti allo “sborone” che con l’arroganza data dalle proprie disponibilità economiche alza la voce, si “allarga”, ricorre al favore dell’amico dell’amico per aggirare furbescamente qualche ostacolo o prendersi ciò che non gli spetta, che ormai non ci facciamo più nemmeno caso. Fa parte del paesaggio e del folklore come “er cuppolone” e la “gricia”.   Ed è così praticamente a tutti i livelli, da quelli bassi ai più alti: che si tratti del “coatto” di borgata con “cabeza” e bicipiti pieni di tatuaggi, della signora abbronzata sempre “in tiro” con i colpi di sole e il brillantino al naso maniaca di centri estetici e balli di gruppo o del libero professionista dell’Eur allergico a qualsiasi forma di cultura ma impegnatissimo a mettere corna, inseguire celebrità ed a far sfoggio tra griffes e ristoranti del proprio denaro evaso al fisco. C’è poi il calciatore della Roma con la quinta elementare ma eroe di un “popolo”, il pariolino arricchito che guarda tutti dall’alto in basso ma che da Ponza a Cortina, dal Circeo all’Argentario, con i suoi modi cafoni è il terrore degli abitanti del posto ed infine lo “squalo” con le mani in pasta un po’ dappertutto ed ammanicato politicamente. Ecco, di tutti quante queste squallide testimonianze di una romanità viziata e tradita, è proprio l’ultima l’immagine che oggi è maggiormente visibile e di certo più dolorosa.

Quella di un uomo ridicolo che, giunto dov’è grazie ad affari chiacchierati ed a protezioni familiari e politiche, vive in una sorta di impunità nonostante abbia dalla propria parte niente più che una sparuta pattuglia di soldatini e ruffiani. Il suo sorriso sfrontato, i modi prevaricanti, la sua verbosità saccente sono lo specchio di quanto sia caduta in basso la statura morale di questa città. La miseria delle manie di onnipotenza e della tranquilla indifferenza con cui viene da anni giornalmente calpestato e ridicolizzato il sogno di tanti adulti e bambini innamorati di una storia e di una bandiera è sotto gli occhi di tutti. Ma non c’è nulla da fare. Perché in questa città, di fronte a volgarità ed arroganza, siamo abituati ormai ad abbassare in silenzio la testa senza avere la minima possibilità di reagire. Perché l’indignazione culturale necessaria per creare gli anticorpi contro certa gentaglia dovevano nascere quarant’anni fa, ma qui il sessantotto, come per primo denunciava Pasolini sui giornali dell’epoca, è stato capace soltanto di invadere università e lanciare molotov contro i poliziotti.  Perché a Roma più che altrove i soldi sporcano e comprano tutto. Perché uomini così rappresentano ciò che, come è accaduto nel passato e come avviene oggi, in questa città comanderà sempre. Roma sono loro.

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