Tra gli ospiti

(…) Mentre scendevano la scalinata dopo essere stati requisiti dai fotografi per una decina di minuti, gli sposi si videro sbarrare la strada dall’enorme tonnellaggio della zia Matilde. Si erano imbattuti in lei mentre era intenta a strattonare dissimulatamente il marito che con in mano dei frittini di pesce minacciava di compiere un mezzo disastro.

Giunti agli ultimi gradini, il tentativo di aggiramento dell’ingombrante parente fallì e non appena questa si accorse di loro la sposa la vide puntare a tutto vapore in direzione del suo vestito bianco come se fosse stata il Titanic verso l’iceberg che le fu fatale.

Liberatasi a fatica dalle sue commosse felicitazioni, Giulia cominciò a girare sotto braccio al marito tra gli ospiti che facevano incetta di antipasti. Andrea sembrava avere un radar con cui osservava tutta quella folla chiassosa e spiluccante.

« Sorridi, quello è un pezzo grosso di Confindustria, » le disse mentre si dirigevano verso una coppia che sembrava appena uscita dalla copertina di Forbes, «dicono che la moglie sia molto simpatica. Potresti frequentarla insieme alle sue amiche del Circolo del Golf. Lo vedi quell’uomo alto che sta parlando con loro? Suo padre è un ex generale della finanza. Anni fa, prima di andare in pensione, mandò accertamenti ad una cinquantina di soci dei circoli più prestigiosi, forse tra loro c’era anche tuo padre. Con tutti alla fine chiuse un occhio ma incassò una montagna di favori che poi fece ricambiare al figlio. Così adesso, grazie a quegli appoggi, è diventato uno dei più grandi immobiliaristi d’Italia. Guarda laggiù come se la ride De Cristoforis. Poveretto, ancora non lo sa che ai Lavori Pubblici hanno deciso di trombarlo. A proposito, ti ho raccontato cosa si dice in giro? Pare che la moglie se la faccia con il personal trainer… »

Nel farsi largo tra un caotico susseguirsi di sorrisi e frasi complimentose, la sposa ebbe l’impressione di essere guidata come un’auto. Quando incontravano gli ospiti coi quali Andrea giudicava opportuno intrattenersi le stringeva leggermente la mano come implicito segnale di arresto. Le volte che invece era lei che desiderava soffermarsi a chiacchierare con qualcuno, se il marito non lo giudicava interessante, la cingeva dietro la schiena e, proprio come se avesse schiacciato il pedale dell’acceleratore, la spingeva in avanti con un’impercettibile pressione della mano. (…)

estratto da: Giugno, anime inquiete, L’Erudita, p. 98

Solitudine

Nel frattempo gli anni passavano; si era ritrovato ragazzo quasi senza accorgersene, sempre nell’attesa che un giorno giungessero finalmente due occhi limpidi e sinceri a guardarlo innamorati. Immaginava di incontrarli uscendo dall’ascensore, entrando a scuola o sbattendoci contro per caso. Di quegli occhi serbava una fotografia stampata in fondo all’anima. Li avrebbe riconosciuti a prima vista donandosi a loro immediatamente con tutto se stesso. Lo avrebbero trovato sollecito, sensibile, comprensivo, generoso. Niente altro avrebbe contato per lui che vederli sorridere. Avrebbe colto le emozioni mute nascoste in ogni  sguardo, portato conforto ad ogni lacrima e partecipato ad ogni loro lampo di felicità.

Ma per quanto continuasse ad attendere e sognare, nessuna lo aveva mai guardato con quegli occhi. Perciò, quando aveva incontrato Giulia, il suo amore introverso per lei lo aveva definitivamente convinto del proprio destino votato ad un lungo ed infelice affannarsi.

I suoi anni migliori erano volati via così e tra delusioni ed amarezze si era ritrovato ad aver superato i trent’anni ancora impantanato nella disperata ricerca di liberare il suo cuore. Tante volte lo aveva sentito fremere dentro di sé come l’agitarsi delle ali di una colomba strette tra le sue mani, impazienti di liberarsi in volo. E più questi sentimenti rimanevano lì in agguato, inespressi, più la sua vita gli appariva senza senso, incolore. Per lungo tempo era stato impegnato a commiserarsi, rannicchiato in un angolo, a testa bassa, schiacciato dalle continue conferme su tutto ciò che lo faceva sentire inadeguato e sconfitto.

Così, in tutto quel soffrire,  alla fine si era dimenticato di vivere.

Estratto da “Giugno, anime inquiete”

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Guidando

Ci sono persone a cui sembra sempre tutto facile. E ne sono così convinte che spesso poi alla fine riesce loro davvero tutto semplice. Sono quelle che da incompetenti si buttano in un discorso con interlocutori molto più preparati;  che si avventurano in un’attività senza avere al riguardo alcuna esperienza; quelle insomma che hanno sempre un’opinione su tutto e sono incrollabili nelle loro convinzioni.

Quanto odiava queste persone. Se Claudia al contrario sentiva di avere una certezza era proprio quella di non avere mai un parere definitivo su niente. Si vedeva come coloro che, essendo fuori forma ed in sovrappeso, vanno a fare jogging nei parchi. Caracollano sudati e paonazzi mentre vengono superati da una serie infinita di magrissimi podisti che osservano sfrecciare al doppio della velocità facendo metà della loro fatica.

Perché a lei invece tutto doveva apparire sempre così tremendamente difficile? Relazionarsi con gli altri, mantenere un amore, parlare con i propri figli. Insomma, le riusciva difficile: vivere.

Come l’acqua che dopo aver cominciato a bollire finisce per evaporare se rimane ancora a lungo sui fornelli, accumulava tensioni ed amarezze che alla lunga la consumavano. Sempre più spesso negli ultimi tempi esplodeva nella maniera più insensata, come se a quella stessa pentola d’acqua fosse stato aggiunto il sale prima di aver abbassato il fuoco. A volte bastava un nonnulla: una persona incompetente, un addetto al pubblico maleducato, qualcuno che usasse un tono inadeguatamente leggero rispetto al suo stato d’animo, per spingerla a lanciarsi  in una delle sue scenate rabbiose tanto folli quanto immotivate.

Claudia camminava in direzione della propria auto di ritorno dall’incontro con Carlo. Pochi passi avanti a lei dei signori elegantemente vestiti stavano spogliando con gli occhi due turiste che potevano avere trent’anni meno di loro. Si sarebbero comportati allo stesso modo se fossero state amiche delle loro figlie? Cos’era allora che li faceva sentire tanto audaci, che li spingeva a quelle occhiate così disinibite? La diversità dell’idioma o la sensazione di poter esprimere al meglio la loro virilità quando erano in branco tra maschietti?

Che esseri ridicoli gli uomini, quanto li compativa.

Erano fin dalla pubertà continuamente in competizione tra loro; lo sport, il conto in banca, le dimensioni del pene. Non facevano che azzuffarsi per il calcio e gonfiare come muscoli il loro infantilissimo ego. Quel modo di trasformarsi davanti ad una donna attraente poi, come era patetico. Non appena si arrapavano tiravano fuori le code come pavoni e perdevano l’uso del loro unico neurone.

Odiava essere bella. No, non era vero, non lo odiava. Non sopportava ciò che spesso comportava essere una bella donna, ecco. Sentirsi sempre osservata, studiata, desiderata. Non che a volte non fosse piacevole, ma spesso quanto la irritava.

Quei sorrisi, a volte sornioni, a volte imbarazzati. Quegli sguardi, ora furtivi, ora spavaldi. Come l’annoiavano. Essere presentata a qualcuno e vederlo deglutire nervosamente per poi pendere dalle sue labbra ad ogni battito di ciglia. Accingersi ad intervenire in una discussione e leggere fin da subito negli occhi di chi le stava di fronte un’ammirazione smisurata prima ancora di avere avuto il tempo di aprire bocca. Tutto ciò aveva il potere di farla innervosire all’istante. Ormai preferiva di gran lunga lo sguardo nascostamente invidioso di una donna a quello inebetito di un uomo.

Se alcuni avessero potuto guardare riflesse in uno specchio le loro espressioni goffe non appena casualmente incrociavano il suo sguardo. Si facevano di fiamma o si confondevano o straparlavano tutti eccitati. Bastava loro unicamente guardarla. Ma si trattava soltanto di un bel viso, neanche ben invecchiato, lontano anni luce da quello della donna che era stata a vent’anni quando si era sentita capace di far girare la testa a chiunque.

Quanto erano falsi gli uomini.

Due giorni prima, mentre stava prendendo un caffè con una sua amica, un tipo di bell’aspetto sulla quarantina ne aveva offerto una brillante dimostrazione. Seduto al tavolino vicino al loro, non appena la propria compagna si distraeva per un attimo, non faceva che guardarle. Quindi, tornando a concentrarsi sulla propria interlocutrice, si rivolgeva a lei con voce calda e suadente. Si sforzava di darsi un tono, recitava la parte dell’uomo esperto, comprensivo, disponibile.

Ad ogni frase in cui sentiva di aver dato prova di tante affascinanti qualità spiava furtivamente nella loro direzione. Forse sperava di aver rimorchiato una di loro, forse tutte e due. Cosa si era aspettato al momento della richiesta del conto quando era tornato a guardarla con insistenza? Che insieme ai soldi Claudia tirasse fuori dal portafoglio un biglietto con il suo numero di telefono? E magari che nel passarglielo di nascosto gli proponesse di fare con la propria amica un giorno di quelli una cosa a tre?

Che bambini erano gli uomini, brancolavano nella più totale incapacità di comprendere una donna. Ormai aveva raggiunto la chiara consapevolezza di quanto fosse facile prendersi gioco di loro, se solo avesse voluto. Perché allora non stronzeggiava? A volte se lo chiedeva in tono di rimprovero, soprattutto dopo aver confrontato il suo modo di relazionarsi rispetto a quello delle altre. Quanto la infastidiva l’atteggiamento falsamente ingenuo di tutte le donne attraenti; proprio non si accorgevano dei privilegi e delle opportunità che ottenevano grazie alla speranza degli uomini di portarsele a letto.

Riflettendo su questi argomenti, in preda ad un umore nerissimo, Claudia guidava verso casa imbottigliata nel traffico.

Proprio davanti a lei un’utilitaria in coda dietro un muro di auto, bloccata al centro di un incrocio, stava creando un ingorgo. Alla guida una truccatissima signora grassoccia la guardava inebetita con espressione incolpevole, come a dire: «Ma quando io sono passata era verde…»

Certi aspetti della nostra vita sono fatalmente destinati ad un disordine cronico che siamo costretti a subire senza alcuna possibilità di porvi rimedio. Claudia sentiva dentro di sé la tentazione di scendere dall’auto, aprire la portiera dell’utilitaria, prendere per il bavero della camicetta quella modella di un quadro di Botero e gridarle: « Brutta befana, ma è così difficile capire che anche se il semaforo è verde prima di passare devi comunque aspettare che la strada sia libera? »

Ma tanto era tutto inutile. Quando in passato era capitato a lei di fermarsi in attesa che l’incrocio si liberasse, puntualmente era stata sommersa dal suono isterico di decine di clacson.

Chiusa nell’abitacolo, resa insofferente dal caldo e dall’imbecillità altrui, si sentì sopraffatta dall’esasperazione; un torrente in piena che non vedeva l’ora di uscire fuori e scatenarsi contro tutto ciò che c’era intorno a lei.

Su un cartellone campeggiava la fotografia di una famiglia seduta a tavola mentre faceva colazione. Tutti erano bellissimi e sorridentissimi in quella cucina bianchissima con alle spalle una finestra con un cielo azzurrissimo. Claudia si scoprì urtatissima da quell’immagine.

Era esausta di essere bombardata dalle pubblicità, dalle offerte imperdibili, dai tre per due e dalle promozioni telefoniche. Davvero non ne poteva più di rispondere ad ogni ora del giorno alle operatrici dei call center. Si qualificavano tutte come delle dottoresse e pretendevano la sua immediata attenzione per delle importanti comunicazioni riguardo all’energia elettrica o alle utenze telefoniche.

Le sembrava che tutti volessero sempre venderle qualcosa per forza mentre quando era lei a voler comprare nessuno sapeva mai fare il suo lavoro. Il giorno prima la commessa di un negozio l’aveva salutata ciancicando un  chewing-gum per poi pedinarla scaffale dopo scaffale. L’estensione del suo sorriso falso nel momento in cui le aveva chiesto il prezzo di un bikini era stata direttamente proporzionale al livello di disponibilità economica di cui l’aveva giudicata capace. Quindi dopo due minuti che era entrata nel camerino, quando ancora non le era riuscita l’impresa di rientrare nella propria consueta taglia estiva, accompagnato al suono dello scoppio di un palloncino con la bocca si era sentita belare all’orecchio: « Beeeh, come va? »

Una signora di mezz’età con un paio di jeans attillatissimi al proprio fondoschiena spropositato stava attraversando la strada sulle strisce con esasperante lentezza, come se sfilasse su un tappeto rosso. Chissà se la sua andatura era dovuta alla paura di cadere a causa delle scarpe con il tacco dodici o per come si sentiva irresistibilmente pantera.

Quanto la irritavano tutte quelle donne stagionate dai capelli tinti, pieni di ricci e colpi di sole. Entravano nei bar con il portafoglio di Louis Vuitton in mano e piene di sé cicalavano con i colleghi di lavoro. Le vedeva allargare le loro fauci  inghiottendo ogni sorta di tramezzini. Con alcune gocce di maionese depositate sui lati delle loro rossissime bocche le ascoltava ridere sguaiate ad alta voce. Erano sempre così allegre e socievoli, magari persino lusingate per aver scorto lo sguardo di qualcuno infilarsi nelle scollature delle loro camicette piene di collane, reggiseni ricamati ed abbondanti tettone…

I sorrisi, le chiacchiere a proposito del nulla, le frasi di circostanza: quanto la seccavano. Il suo cortesissimo vicino di casa, un vedovo sulla sessantina totalmente vuoto, era a questo proposito il terrore del suo condominio. Ritenuto pericoloso al pari di un serial killer, aveva il supremo difetto di voler attaccare sempre discorso incurante del momento inopportuno. Per lei poi, nutriva una tale smodata ammirazione che ogni volta che la incontrava davanti al portone del loro edificio s’illuminava tutto emozionato. Era una di quelle persone che, sebbene non abbiano nulla da dire, viene loro più semplice parlare che tacere. Così, spinto dalla propria natura espansiva, amava fermare i vicini costringendoli in inutili e noiosi convenevoli piuttosto che limitarsi a salutarli e lasciarli liberi di andarsene per i fatti loro.

Aveva piene le scatole di tutto quel qualunquismo che era costretta ad ascoltare praticamente ovunque, dal banco del mercato alla sala d’aspetto del medico di base. Banalità, frasi fatte ed opinioni rimasticate si accompagnavano alle solite lamentele contro il caro vita e la disonestà della classe dirigente.

Che strano: era così infastidita da quei luoghi comuni sui politici quando provenivano da certe vecchie signore, poi però anche lei veniva assalita dal disgusto appena comparivano in televisione quei visi ipocriti. Come erano falsi mentre guardavano fissi la telecamera ripetendo la loro formuletta preconfezionata a beneficio dei telegiornali. Li osservava svolgere il compitino impartito loro da addetti stampa e consulenti d’immagine e dentro di sé idealmente li sottotitolava con ciò che le loro parole non dicevano: « Sono contrario a questo provvedimento perché va contro gli interessi del gruppo di potere a cui rendo conto per rimanere insediato nel mio seggio. Sto travestendo con la preoccupazione per l’interesse pubblico la necessità di proteggere i privilegi che mi sono accaparrato per me, la mia famiglia e la gente a cui devo dei favori. »

E che ipocriti i giornalisti che li intervistavano. Sempre pronti a lanciare loro la battuta perché quella recita risultasse più credibile. Tra questi il peggiore di tutti era suo cognato Andrea. La superbia, la falsità, la fame di successo perseguito arrampicandosi, blandendo, strisciando. Come un’infiltrazione d’acqua aveva la capacità di intrufolarsi dovunque. Lo vedeva in televisione sorridente, perspicace, brillante e confrontava  quell’impressione con l’aridità che dimostrava nei confronti di sua sorella.

Quanto odiava tutte le persone infide che come lui intrigando, mentendo ed intrallazzando alla fine ottenevano sempre ciò che volevano. Era il caso di Corrado, il direttore della boutique dalla quale Carlo due anni prima era stato costretto a licenziarsi. Quando un giorno le era capitato di passare a piedi per via Sistina si era precipitato fuori dal negozio pur di salutarla da lontano. Gongolando sulla porta aveva sfoderato un largo sorriso trionfante rivolto più che a lei all’indirizzo del suo amico.

A pensarci bene però anche il buonismo di Carlo le dava la nausea. Con quella sua sicurezza di essere un così buon amico − e lo era sul serio, a dire il vero… − quell’atteggiamento sempre così saggio, comprensivo e solidale. Chissà se era così per indole, per l’affetto che provava per lei o per potersi sentire gratificato proprio dal ritenersi tanto fedele e disponibile.

Man mano che i centri concentrici della propria insofferenza si restringevano intorno a sé, sentì la propria collera divenire incontenibile.

Disprezzava Priscilla, la vecchia amica di Giulia. Sposata ad un milionario svizzero, viveva tra Milano e Ginevra conducendo una vita da principessa. Ogni volta che capitava a Roma il finto attaccamento a sua sorella era in realtà solo un pretesto perché all’orecchio di tutta la sua famiglia arrivasse l’eco dei lussi nei quali viveva. Era una di quelle persone che, raggiunto un certo status sociale, vengono rapite dalla smania di voler apparire a tutti i costi diverse da ciò che sono sempre state. In tutte le relazioni che intratteneva, a cominciare da quella con il marito, aveva assunto di colpo, insieme ad un vago accento meneghino, l’atteggiamento della signora altolocata, sofisticata almeno quanto facoltosa.

Ogni volta che nell’esprimere un’opinione veniva a trovarsi in un vicolo cieco spesso si interrompeva con la bocca socchiusa. Quasi fosse stata colta da una fulminea paresi al momento di pronunciare la vocale ”o”, con espressione riflessiva si chiedeva: «Che volevo dire?»

Guardava nel vuoto come se si fosse persa in altre preoccupazioni più urgenti ma in realtà tesa nello sforzo di cercare la battuta migliore per recitare al meglio la sua parte.

Non sopportava sua sorella Mara con il suo indisponente sentirsi arrivata dal punto di vista professionale e risolta da quello umano. Ah, quel modo saccente di guardarla, quanto le era indigesto. Concentrata esclusivamente su se stessa, sulla sua famiglia e sulla carriera, non dubitava minimamente dell’esattezza delle proprie convinzioni né dell’ordine in cui era organizzata la sua vita. Aveva sempre un suggerimento da darle: un vestito più adatto da indossare, un modo migliore in cui avrebbe potuto dire una cosa o un comportamento più adeguato che avrebbe dovuto tenere. E tutto ciò lo diceva facendolo cadere dalla vetta della sua posizione professionale ed affettiva. Forte del proprio matrimonio e del rapporto con i figli, glieli sbatteva continuamente in faccia, convinta che bastassero questi da soli a dimostrare come lei avesse avuto successo e Claudia avesse invece fallito.

La indisponeva a morte sua madre e la sua finta madreteresità. Sempre pronta a sacrificarsi per i nipoti glielo faceva continuamente scontare rimarcando le sue mancanze ed i suoi difetti. Si atteggiava come se la sua disponibilità fosse senza limiti, sempre però a condizione che non coincidesse con i suoi impegni al bridge o con Lalla, Bea, Ninni e tutto il resto delle sue sofisticatissime, danarosissime, compagnie. Chissà se quelle che si compiaceva di ritenere sue intime amiche la ritenessero tale a loro volta. Forse, viste le sue umili origini, in realtà non la consideravano molto di più di quelle terribili burine che tra le seconde mogli degli amici dei mariti tutte loro continuamente sbeffeggiavano.

Mentre guidava verso casa la sua insofferenza peggiorò ulteriormente all’idea di tornare a circondarsi dell’arredamento della sua abitazione. Imbestialiva dalla rabbia ricordando come Stefano durante la progettazione si fosse lasciato incantare da ogni proposta del suo borioso amico architetto. Ma era furiosa  ancora di più verso se stessa per essersi fatta sedurre da quei rendering sofisticatissimi in cui veniva rappresentata una casa fresca, giovane, moderna.

Ciò che invece aveva intorno a sé, e giornalmente l’assediava, era un’orrenda sequenza di pareti curve  e superfici inclinate. Sotto un intricato gioco di controsoffittature incastrate tra loro tipo puzzle tutto appariva in precario equilibrio. Un divano melanzana ed altri arredi di colori variabili tra il verde mela, il ciliegia e l’arancio − sull’acquisto dei quali il grande professionista aveva di certo lautamente lucrato − completavano il policromo, ortofrutticolo, insieme.  Più che la suggestione di vitalità plastica che il geniale figlioccio di Philippe Starck aveva sostenuto di voler comunicare, la sensazione che aveva Claudia era quella di vivere in un bordello high tech o, più esattamente, sul set di un film di Almodovar.  A parziale risarcimento della completa latitanza di idee davvero originali,  sparse un po’ qua e un po’ là, trionfavano lampade di design dalle forme accattivanti, pegno obbligato all’inimitabile gusto del tronfio progettista chissà se daltonico.

da: “Giugno, anime inquiete” – Massimo Di Veroli – pp. 186 -194

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Sara Vaturi Treves

Sara Vaturi Treves riproponeva tutti i cliché della mamma ebrea.

L’essersi dedicata con tutta se stessa alla propria famiglia era persuasa che avrebbe dovuto farlo scontare a vita ai propri quattro figli. David, il più piccolo, l’unico maschio, ed il solo a non essersi ancora sposato, era fatalmente il più esposto alla reinterpretazione in salsa ebraica del concetto di amore materno. Il pranzo in casa sua nel corso della settimana era una tradizione che, da diverso tempo ormai,  gli aveva imposto come se fosse stata la naturale estensione del comandamento di onorare il padre e la madre.

Appena uscì dall’ascensore la trovò ad attenderlo sulla porta di casa con la tipica espressione a metà tra il preoccupato ed il contrariato che sempre assumeva in tutte le occasioni in cui si presentava in ritardo.

Fumante in tavola stazionava già da diversi minuti un piatto inverosimilmente ricco di falàfel ed uno shnìtzel di dimensioni gigantesche. David pensò che le porzioni extralarge che ogni volta sua madre gli somministrava erano probabilmente  commisurate al numero di lamentele che lo attendevano sulle sue mancanze nell’assolvere i propri doveri di figlio. Pertanto si preparò ad ascoltare le varie recriminazioni che, travestite da semplici commenti, avrebbe approfittato per cantilenare durante il pasto.

*****

Il proprio affetto per i figli, in particolar modo per David, era solita dimostrarlo in un personalissimo atteggiamento di perenne insoddisfazione venata a volte di preoccupazione, a volte di vero e proprio risentimento.  Perciò, una volta uscito di casa, i motivi delle sue lagnanze si erano moltiplicati ed aveva anche preso a polemizzare sui cibi pronti che si preparava, su come erano mal stirate le sue camicie e su come fosse poco pulito il suo appartamento. Per ultima poi, ma non meno importante, era fonte d’inconsolabile amarezza il fatto che se non fosse stata lei a telefonargli, lui probabilmente non si sarebbe fatto sentire per dei giorni interi.

In realtà, tutta quella contrarietà dinanzi alla scelta di andare a vivere da solo celava una motivazione ben più profonda della naturale esigenza materna di soffocarlo liberamente tenendolo stretto a sé. Ciò che la signora Sara temeva era che, venendo meno l’esigenza di scappare dalla casa dei genitori, suo figlio non si fosse più sentito spinto a cercarsi una moglie per darle dei nipotini suoi.

« Perché non vuoi frequentare le ragazze ebree? » lo aveva accusato anche quel giorno. « E perché non vieni più al Bèth a Knèsset  per lo Yom Shàbbat ? È un puntiglio il tuo, nient’altro! Non pensi alle preoccupazioni che mi dai? È questa la ricompensa per tutti i sacrifici che ho fatto per voi? »

 Chissà perché, si era domandato David mentre mangiava impassibile di fronte a quel diluvio di ricatti morali, sua madre aveva l’abitudine di lagnarsi delle malefatte di un figlio trattando da ingrati anche tutti gli altri. Notò che in questi casi il suo tono seguiva uno schema ben preciso, quasi musicale. Come descrivesse una sinusoide, l’inflessione contrariata della sua voce si trasformava di frase in frase. Ora la sua contrarietà diveniva rassegnato vittimismo, ora l’apprensione più accorata per poi tornare ad inalberarsi di nuovo.

« Ah, non hai alcun rispetto per la memoria di tuo padre. Se fosse qui lo uccideresti dal dolore, » aveva detto nel bel mezzo di quella varietà tonale. « Ma cos’hai contro la tua gente, si può sapere? Le ragazze migliori te le stai facendo scappare tutte quante! A Pèsach ero seduta accanto alla nipote di Noemi Hànnuna: è così carina, educata… Ma per te non è abbastanza, vero? E questo poi per andare dietro a quelle sharmutot  con la puzza sotto il naso che piacciono tanto a te. »

L’abitudine appresa di recente di chiamarlo Davìd − in ebraico, con l’accento sulla “i” − nel fungere da sottinteso richiamo ai suoi doveri, descriveva perfettamente la biblica dura cervice della signora Sara. Pretendeva che il figlio vivesse la sua vita come lei aveva stabilito. Perciò, i suoi continui richiami alle tradizioni erano ispirati non tanto dal biasimo per l’inosservanza delle prescrizioni di Hashèm quanto per l’allontanamento dalla rotta da lei prefissata che con tenace perseveranza coglieva ogni occasione per tentare di imporgli.

Naturalmente il fatto che David fosse single sua madre lo imputava unicamente alla testardaggine ed ai gusti eccessivamente pretenziosi del figlio. L’eventualità che non fosse ritenuto attraente da una ragazza non era contemplata dalla rancorosa signora Treves. Per quanto deludente, ai suoi occhi David era in ogni caso il più bello, intelligente ed in gamba di tutti i figli delle proprie amiche. L’espressione che mostrava ogni qualvolta parlava di lui era dunque quella perennemente amareggiata di colei che aveva un figlio in galera o tossicodipendente.

Massimo Di Veroli, Giugno, anime inquiete, L’Erudita, pp. 119/122

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La gelosia

“La gelosia, specie quando giunge alla morbosità, è forse la più comune delle forme di follia ma non per questo meno terribile. Altro non è che l’ossessiva ricerca della propria tranquillità attraverso la pretesa di controllare i pensieri e le azioni  dell’oggetto dei propri sentimenti tentando di imporgli un comportamento che spesso è insensato pretendere. Non c’è spiegazione fornita per fugare un dubbio che non sia destinata ad essere messa in forse da un nuovo e più forte sospetto. Ogni particolare che si presti ad un’interpretazione ambigua assurge a certezza e viene immediatamente utilizzato per avvalorare le proprie insane supposizioni. Si finisce così col precipitare in una tempesta emotiva selvaggia, incontrollata, lontana da qualsiasi esatta percezione della realtà. La capacità di pensare in modo razionale cade in ostaggio di pensieri che, seppure nei primi istanti che si affacciano alla mente possono apparire poco credibili,  si fanno poi sempre più crudelmente reali, terribili ed ingovernabili.

Alcuni sono consci di essere ingiusti, eccessivi, irrazionali, ma non riescono a farne a meno. Una volta superato il momento dell’ira cieca provano rammarico per le proprie azioni e si vergognano di loro stessi. Tuttavia, essendo una vera e propria infermità, ciò non è quasi mai sufficiente a contenersi e davanti ad un nuovo sospetto cadono nei medesimi eccessi in cui sono incorsi nelle crisi precedenti. Altri invece, completamente incapaci di avventurarsi in quell’oscura arte comunemente nota come autocritica, si sentono in diritto di esercitare qualsiasi rivendicazione sul proprio partner senza alcuno scrupolo.”

Massimo Di Veroli, Giugno, anime inquiete, L’Erudita, pp. 179/180

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(Immagine tratta da “L’inferno” di C. Chabrol – 1994)

Bella

Bella. La sua comparsa per la strada aveva provocato un effetto tipo Mar Rosso sulla folla che si era aperta spontaneamente al suo passaggio.

Bella. Camminava con passo spedito, incurante di attirare su di sé gli sguardi ammirati dei passanti. Le donne si limitavano ad osservarla con la coda dell’occhio con un’espressione di finta indifferenza colma di invidia. Gli uomini rischiavano un torcicollo permanente pur di poterla osservare qualche istante di più. Alcuni arrivavano addirittura a sottoporsi ad una rotazione del collo che neanche il più sadico dei massaggiatori di Shiatsu avrebbe osato tentare.

Bella. Attraverso la generosa scollatura di una camicia di seta bianca s’indovinavano due seni perfetti esibiti spavaldamente come se stesse sollevando il trofeo sul campo centrale di Wimbledon. Il suo profumo lasciava una scia che ammaliava tutti coloro che le passavano accanto, rapendo insieme al loro sguardo anche i loro pensieri, i loro sogni, i loro rimpianti.

Bella, ma bella davvero. Camminava con passo affrettato e deciso, guardando dritto davanti a sé, indifferente rispetto a tutto ciò che la circondava. Aveva il tipico atteggiamento un po’ scostante di chi era stata importunata tante volte dai commenti pesanti di qualche ragazzotto o dagli sguardi insistiti di tanti uomini volgari che l’avevano resa prevenuta nei confronti di qualsiasi incontro facesse per la strada.

Bella, anzi bellissima. Fermo con lo scooter al semaforo, nascosto dietro le lenti verde scuro degli occhiali da sole, David le attribuì il titolo di miss via Cola di Rienzo, permettendo ai suoi occhi di uscire temporaneamente dalle loro orbite. La osservò con attenzione: studiò la sua maniera di muoversi e di camminare, cercò nel suo abbigliamento qualsiasi indizio gli parlasse di lei, del suo carattere e della sua vita. La seguì fino a quando le sue diottrie non glielo consentirono; infine tirò le somme della propria indagine.

Nubile, come rivelava l’assenza di una fede al dito. Affascinante, ma anche energica, volitiva e soprattutto: brava. Soltanto osservando il suo atteggiamento sicuro di sé si poteva scommettere sul successo della sua attività, qualunque essa fosse.

Bella, d’accordo, ma probabilmente anche un tantino stronza, con quel fare brusco ed altero di chi nella propria vita aveva conosciuto tanti uomini, molti dei quali l’avevano corteggiata e lusingata al punto che ormai nulla poteva più stupirla. David lasciò che la propria immaginazione partisse al galoppo ed iniziò le riprese del suo nuovo film.

S’immaginò vent’anni più tardi nell’atto di osservare l’oceano, perso nei propri pensieri, mentre se ne stava sdraiato su di un’amaca all’ombra della veranda della propria villa di Malibù.

Ormai veniva a Los Angeles sempre più di rado dato che trovava più confortevoli ed adatte al proprio stile di vita le ville che possedeva in Europa, ma questa aveva per lui un valore sentimentale particolare.

L’aveva arredata con Veronica, forse la donna più importante della sua vita. David ripensò con nostalgia alla prima volta che l’aveva vista passeggiare in via Cola di Rienzo. Ricordò come in sella al suo scooter fosse rimasto colpito dall’effetto tipo Mar Rosso che la sua comparsa per strada aveva provocato sulla  folla che si era aperta spontaneamente al suo passaggio.

Gli capitò di incontrarla nuovamente qualche mese più tardi, per caso, ad una cena presso degli amici comuni. Qualcuno, non ricordava più chi con esattezza, li presentò.

Cominciarono a parlare della loro amicizia con i padroni di casa quindi delle rispettive attività e della comune passione per lo sport, per il cinema e per i libri. Con il passare dei minuti si allontanarono dai binari consueti della tipica conversazione mondana scoprendo affinità sempre maggiori: anche lei era allergica alla peperonata, agli ipocriti ed alla maggior parte dei conduttori televisivi. Tutto ciò convinse David di aver finalmente trovato, dopo un lungo ed affannoso cercare, la donna della sua vita.

Soltanto a fine serata si accorsero di aver catalizzato l’attenzione degli altri invitati dato che avevano finito per isolarsi  conversando  tra loro per  tutto il tempo. Fu proprio Veronica al momento dei saluti a proporgli di rivedersi.  Lei sembrava affascinata dalla profondità ed intelligenza di David, lui era rapito dalla sua straordinaria bellezza e vitalità. Iniziarono a frequentarsi, a poco a poco sempre più regolarmente, finché una sera  David, sotto casa, la baciò.

La loro fu una relazione tenera e profonda. Furono amici, compagni di gioco, complici, amanti. Seppero ridere insieme, discutere e comprendersi.  Furono capaci di condividere le loro passioni e gestire con saggezza le diversità.  Veronica si addormentò soltanto pochissime volte a  teatro nel  vedere gli spettacoli a cui lui la trascinava. David, da parte sua, mangiò sempre fino all’ultimo boccone le cenette che lei gli preparava malgrado la sua vocazione per privare tutto ciò che cucinava del benché minimo sapore.

Il giorno in cui lei  si trasferì per lavoro in Australia tutti e due sapevano che questo avrebbe significato la fine della loro relazione ma l’accettarono senza drammi, gestendo anche l’ultimo episodio della loro storia con la saggezza e la maturità di sempre.

In seguito per David arrivò la fama ed il successo. Ebbe diverse altre relazioni, alcune delle quali con affascinanti attrici e splendide modelle ma il ricordo di  Veronica non lo abbandonò mai, rimanendo custodito per sempre con tenerezza nel proprio cuore.

Quando casualmente, qualche anno dopo, venne a sapere che nel frattempo Veronica si era sposata con un ricco uomo d’affari di Sidney fu profondamente commosso nel sapere che da quella relazione era nato un figlio che lei aveva assolutamente voluto chiamare David, in ricordo di colui che le aveva restituito la fiducia negli uomini ed insegnato ad amare…

 

Un maxiscooter con dei nastrini gialli e rossi legati agli specchietti era fermo al semaforo dietro di lui. Alla sua guida un ominide con una bandana che sporgeva da sotto il casco, megaocchiali da sole, infradito ai piedi ed abbronzatura da ustionato del quinto grado suonò il clacson con intensità inversamente proporzionale al proprio bagaglio culturale.

David fu improvvisamente risvegliato dal suo sogno ad occhi aperti. Attorno a lui manifestini con scritte coloratissime erano affissi sui muri e sui pali della luce. Facce di cantanti un tempo vagamente noti si mescolavano a quelle ultrasorridenti di sedicenti comici che animavano le varie serate di quell’inizio d’estate all’ombra di questo o quel monumento.

Al suono di un « e ‘namo, no » e un « movite, daje », si accorse  che nel frattempo il semaforo era diventato verde. Girò la manopola del gas  e partì.

Estratto da “Giugno, anime inquiete”

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La malattia di vivere

“Ci sono persone a cui sembra sempre tutto facile. E ne sono così convinte che spesso poi alla fine riesce loro davvero tutto semplice. Sono quelle che da incompetenti si buttano in un discorso con interlocutori molto più preparati;  che si avventurano in un’attività senza avere al riguardo alcuna esperienza; quelle insomma che hanno sempre un’opinione su tutto e sono incrollabili nelle loro convinzioni.

Quanto odiava queste persone. Se Claudia al contrario sentiva di avere una certezza era proprio quella di non avere mai un parere definitivo su niente. Si vedeva come coloro che, essendo fuori forma ed in sovrappeso, vanno a fare jogging nei parchi. Caracollano sudati e paonazzi mentre vengono superati da una serie infinita di magrissimi podisti che osservano sfrecciare al doppio della velocità facendo metà della loro fatica.

Perché a lei invece tutto doveva apparire sempre così tremendamente difficile? Relazionarsi con gli altri, mantenere un amore, parlare con i propri figli. Insomma, le riusciva difficile: vivere.

Come l’acqua che dopo aver cominciato a bollire finisce per evaporare se rimane ancora a lungo sui fornelli, accumulava tensioni ed amarezze che alla lunga la consumavano. Sempre più spesso negli ultimi tempi esplodeva nella maniera più insensata, come se a quella stessa pentola d’acqua fosse stato aggiunto il sale prima di aver abbassato il fuoco. A volte bastava un nonnulla: una persona incompetente, un addetto al pubblico maleducato, qualcuno che usasse un tono inadeguatamente leggero rispetto al suo stato d’animo, per spingerla a lanciarsi  in una delle sue scenate rabbiose tanto folli quanto immotivate.”

da “Giugno, anime inquiete” – Massimo Di Veroli

Il matrimonio di Giulia: un’invitata

In fondo a due ali di invitati che rivolti all’indietro si sporgevano curiosi, un secondo baldacchino del tutto simile a quello dei musicisti era incorniciato da una cinematografica veduta delle colline toscane. Lì, ad attenderla al fianco di Don Giacomo, c’era Andrea.

Nel riprendere il suo lento incedere verso quella meta finale con un sentimento di ansia mista ad emozione, una galleria infinita di volti che la fissavano sorridenti le apparvero ognuno per una frazione di secondo.

Ecco nelle ultime file insieme agli altri colleghi dello studio, Giovanna, la segretaria storica del padre, emozionata e truccatissima. I suoi capelli, tinti per l’occasione di un abbagliante biondo platino, davano quel giorno un nuovo significato al termine “mossi”. Sembrava che il coiffeur che l’aveva pettinata, invece di armeggiare per ore con l’asciugacapelli, le avesse fatto semplicemente mettere le dita nella presa della corrente elettrica.

Poco più in là si intravedeva la nuca pelata dello zio Sergio, il fratello minore di suo padre. Impettito e severo, era un particolare tipo di ometto sempre pieno di invidia e permalosità. Compresso in un abito di tasmania grigio antracite che non lasciava spazio ad alcun respiro che non fosse strettamente necessario, appariva preoccupatissimo che qualcuno potesse trovare in lui qualcosa che non andasse. (…)

Al suo fianco, agghindata in pompa magna ed ostentatamente emozionata, c’era la moglie Giada. All’apparenza cordiale ed affettuosa, era primatista in pettegolezzi e sempre pronta ad impicciarsi negli affari altrui. Riguardo a se stessa non perdeva occasione per fregiarsi dell’immagine di instancabile lavoratrice e madre di famiglia.  Era di quelle persone, tutto sommato neanche cattive di animo, così irrimediabilmente malate di protagonismo da volersi mettere sempre al centro dell’attenzione.

Giulia si domandò per un istante se le sue smorfie di commozione e lo sforzo di mantenere costantemente gli occhi lucidi fossero evidenti solo a lei o anche a tutti gli altri ospiti. Fin da subito indovinò su cosa si sarebbero incentrati gli sforzi esibizionisti della zia per l’intera serata. Mostrando il suo grande amore per la nipote si sarebbe accreditata agli occhi dei familiari dello sposo e degli amici comuni come una zia straordinariamente amorevole in modo tale da suscitare il loro interesse. Dopo di che, ottenuto il pretesto per iniziare una conversazione, si sarebbe gettata nella consueta abbondante mostra di sé.

Accanto a lei, al di sotto di un paralume verde-prato adibito a cappellino, si scorgeva il pallidissimo volto della figlia trentaseienne, una di quelle ragazze sfortunate che nelle famiglie agiate divengono dei casi pietosi a causa del confronto con l’ambiente circostante; di quelle che quando si parla di loro il tono di voce subito si abbassa e le espressioni del viso si fanno rammaricate. Addobbata a festa con uno sfarzoso abito color crema a fiori colorati che sul suo corpo in sovrappeso richiamava un lampadario veneziano del settecento, la sua totale mancanza di appetibilità era universalmente riconosciuta. L’espressione sempre svagata ed un po’ imbronciata non faceva che ribadire le ragioni di quell’opinione diffusa dovuta del resto anche alla latitanza di una qualsiasi forma d’intelligenza o brillantezza di spirito. Per questo la missione di maritarla che per anni aveva mobilitato tutta la parentela si era da tempo rivelata un’impresa impossibile ed il suo stato di zitella veniva ormai accettato con rammaricata rassegnazione. (…)

Proprio in quel momento la madre si era voltata verso di lei per sorvegliare il suo contegno e controllarle il vestito. In quell’attenzione al suo aspetto aveva la stessa sollecitudine di quegli agenti immobiliari che nel mostrare un appartamento sfitto da parecchio tempo si precipitano ad aprire le finestre perché vada via l’odore di chiuso. Tuttavia, così come i raggi del sole ed un po’ d’aria fresca non possono trasformare un monolocale fatiscente in un loft prestigioso, gli sforzi di sua zia non avevano alcuna speranza di rendere la figlia attraente se non per qualche attempato single fortemente miope ed amante dello stile country di Laura Ashley.

Massimo Di Veroli, Giugno, anime inquiete, L’Erudita, pp. 88/91

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Nuotando

Solo quando finalmente varcò la porta d’accesso alla zona della piscina e le sue narici furono raggiunte dall’odore del cloro, il suo nervosismo si dissolse.

A quanti ricordi era legato quel profumo amaro e sottile. Il nuoto era stato la grande passione della sua gioventù. L’aveva portata a gareggiare in diverse occasioni per il campionato italiano e per due volte era stata a un passo dal giungere in nazionale. Ancora adesso, a trentadue anni, appena poteva s’imponeva di infilare tra i suoi impegni lo spazio per una nuotata.

La vasca, semideserta al termine dei corsi dei bambini, esprimeva una tranquillità irreale. L’arrivo dei dopolavoristi del nuoto libero l’avrebbe presto riempita di nuovo facendo svanire tra schizzi e schiamazzi quel senso di muta sospensione.

Si tuffò godendo dell’irrazionale entusiasmo che le donò immergersi nello specchio d’acqua immoto. Il silenzio che regnava fuori e dentro la superficie l’avvolse per qualche breve istante.

Riscaldamento. Dieci vasche.

Nuotando in apnea allungò il suo corpo con movimenti ampi e lenti. Una sensazione di libertà e di padronanza di sé penetrò nella sua pelle. Bracciata dopo bracciata, man mano che sentiva spezzarsi il fiato e scaldarsi il suo corpo, il piacere dell’esercizio fisico cominciò lentamente a depurarla. Si sentì finalmente pacificata. Era come se, insieme all’acqua che stava remando dietro di sé, stesse spazzando via le scorie e le inquietudini che, dopo averla assalita per tutto il giorno, l’avevano seguita fin dentro lo spogliatoio. Da un paio di mesi aveva cominciato ad avvertire la presenza di un’ombra invisibile che ovunque andasse non l’abbandonava. Solo nel momento in cui se ne era liberata aveva avuto la percezione di quanto fosse opprimente il macigno che gravava continuamente sulle sue spalle.

Dorso. Due serie da quindici vasche.

Con un’energica spinta delle gambe si separò dal bordo della vasca e incurvò la schiena spingendo il ventre verso l’alto sul filo dell’acqua. Le spalle presero a mulinare le braccia con cadenza regolare mentre sopra di sé le capriate metalliche della copertura passavano rapidamente in sequenza una dietro l’altra. Le sembrò che rappresentassero gli anni della sua vita e la velocità con cui scorrevano sotto i suoi occhi la stessa con la quale erano trascorsi. Si rivide bambina e poi adolescente a osservare sopra di sé il tetto della vecchia piscina dove si era allenata per anni. Ripensò alle fantasie che si rincorrevano allora nella sua testa mentre macinava i chilometri.

Davvero non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi dopo anni a fendere l’acqua allo stesso modo, con i palmi delle mani rivolti all’infuori,  vivendo una vita così lontana dai sogni di allora. Ricordi e illusioni cominciarono ad affollarsi nella sua testa sovrapponendosi gli uni agli altri. Quante energie sprecate, quanto tempo scivolato via dietro ai mille voli impossibili in cui si era persa nella sua fantasia.

Era il pensiero di quegli ultimi anni trascorsi senza più un obiettivo o un’idea a ferirla. Anni smarriti che ora cominciavano a soffocarla, a ferirla, a umiliarla.

Tempo. Correva troppo veloce per quelle che erano le sue capacità di viverlo. Lo sentiva sfuggirgli come acqua tra le mani. Maledetto tempo. Non sapeva come gestirlo, corteggiarlo, renderlo suo alleato. E se proprio le era impossibile amarlo che riuscisse almeno a non odiarlo.

Crawl. Due serie da venticinque vasche.

I gomiti piegati a quarantacinque gradi si sollevarono alti fuori dalla superficie per poi tornare subito a distendersi. Le mani aperte con le dita serrate, inclinate ad angolo acuto, s’immersero alternate sotto il peso delle braccia che rullavano attorno alle spalle. Nello stirare tutta la parte superiore del corpo alla ricerca dell’acqua lontana fu investita di nuovo da un’ondata di benessere. Era una di quelle sensazioni volatili, destinate a durare solo un attimo; come quando tiri un rovescio lungolinea che va a infilarsi all’incrocio delle righe o vedi gli occhi che ami illuminarsi per qualcosa di divertente che hai detto. Quel senso di soddisfazione che avverti quando ti accorgi che stai facendo qualcosa nel modo corretto, proprio come va fatta, al meglio. Claudia si domandò da quanto tempo non provava una simile emozione.

Pensò agli sguardi muti che ultimamente si vedeva rivolgere dai suoi genitori, da suo marito, dai suoi figli. Occhi scontenti, severi, che non facevano altro che denunciare quanto per loro fosse inadeguata come figlia, come moglie, come madre e come donna. A volte, schiacciata dall’insoddisfazione, si sentiva ancora bambina. Un’ adolescente capricciosa e ribelle quando contraddiceva suo marito solo per contestarne l’autorità  o una bimba tormentata e insicura quando si accorgeva di ricercare dai propri figli quelle risposte che sentiva di non avere.

Col sommarsi delle vasche l’una all’altra i suoi pensieri cominciarono via via ad alleggerirsi. Le braccia allentarono il loro ritmo, le gambe si fecero più pesanti. Claudia s’impose di concentrarsi soltanto sul respiro.

Forse leggeva sui volti dei familiari espressioni inesistenti, forse vedeva tutto più nero di quel che fosse in realtà. Fino a quando avrebbe continuato a intestardirsi nel cercare in superficie la tranquillità ed il silenzio che avvertiva sott’acqua?

Massimo Di Veroli, Giugno, anime inquiete, L’Erudita, pp. 36/38

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Il nonno di Giulia

Un bacio commosso almeno quanto imbarazzato da parte di Giulia che non era mai stata disinvolta nell’abbandonarsi in pubblico ai gesti di affetto, sancì la fine della cerimonia.

La prima persona che si avvicinò a lei fu sua madre che raggiante la strinse in un caloroso abbraccio. Quindi, tra l’invadente sollecitudine delle congratulazioni dei suoceri ed i baci affettuosi delle sue sorelle e dei loro mariti, ecco farsi largo a fatica suo nonno Aldo.

Giulia piena di commozione gli si fece incontro con tenera premura. Nutriva un amore sconfinato per quel dolcissimo novantenne. I suoi folti capelli d’argento mal si accordavano con il pallido colorito sul quale risaltavano due occhi incredibilmente buoni e sinceri. Nel suo sguardo si poteva tranquillamente leggere tutto di quel vecchio. S’indovinava la commozione per il matrimonio della nipote prediletta ma anche la consapevolezza che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima cerimonia alla quale avrebbe assistito.

Ci sono uomini che invecchiando s’immalinconiscono oltre misura, feriti dall’età avanzata che vivono con amarezza. Aldo aveva pudore del suo incedere incerto, del bisogno di appoggiarsi ad un bastone, dei movimenti allentati, di dover chiedere aiuto per cose che giudicava elementari e se ne vergognava. Soprattutto si rammaricava di non sentirsi più lui ma solo il suo stanco ricordo.

Dotato di un talento per il disegno straordinario, da autodidatta aveva fin da giovane ritratto un’infinità di volti, paesaggi e scorci di città. Successivamente, nei ritagli di tempo rubati al suo lavoro, si era dedicato alla pittura ad olio lasciando ai propri familiari un inesauribile patrimonio di tele raffiguranti fontane, carrozzelle con i cavalli, uomini seduti ai tavoli delle osterie e mille altri episodi che ritraevano con passione e poesia squarci di una Roma ormai estinta.

Giulia era legatissima tanto ai quadri ed ai disegni che il nonno le aveva regalato quanto al suo splendido mondo interiore. Uomo di rara sensibilità, sentiva con lui un legame profondo. Nelle sue frequenti visite domenicali lo spingeva a raccontarle le vicende vissute durante la guerra a caccia di qualche dettaglio a lei ancora sconosciuto. Spesso gli chiedeva di mostrargli qualcuno degli innumerevoli schizzi fatti in quel periodo che conservava gelosamente nel suo studiolo.

Amava tutto di lui, dalla sua smisurata modestia alla discrezione d’altri tempi. Avendo cominciato a lavorare a diciassette anni per aiutare i propri genitori, Aldo non aveva potuto terminare le scuole superiori di conseguenza il suo modo di esprimersi era piuttosto semplice. Giulia però non lo aveva mai ritenuto un limite. Al contrario, le appariva l’inevitabile lotta tra il suo vocabolario e l’immensa profondità del suo animo. Ora poi che l’età avanzata lo conduceva spesso ad incespicare nelle parole o ad arrestarsi a metà di un concetto, la tenerezza che avvertiva per lui era infinita.

Quando un giorno, dopo mille insistenze, era riuscita a cavargli un’opinione sincera sul suo fidanzato, quel termine “antipaticuccio” sussurrato con occhi dispiaciuti ed imbarazzati, l’aveva ferita indicibilmente. Ora  quegli stessi occhi si avvicinavano a lei pieni di commozione in attesa di stringerla in un tenero ed affettuoso abbraccio.

(Da: Giugno, anime inquiete – Massimo Di Veroli)

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