Ci sono persone a cui sembra sempre tutto facile. E ne sono così convinte che spesso poi alla fine riesce loro davvero tutto semplice. Sono quelle che da incompetenti si buttano in un discorso con interlocutori molto più preparati; che si avventurano in un’attività senza avere al riguardo alcuna esperienza; quelle insomma che hanno sempre un’opinione su tutto e sono incrollabili nelle loro convinzioni.
Quanto odiava queste persone. Se Claudia al contrario sentiva di avere una certezza era proprio quella di non avere mai un parere definitivo su niente. Si vedeva come coloro che, essendo fuori forma ed in sovrappeso, vanno a fare jogging nei parchi. Caracollano sudati e paonazzi mentre vengono superati da una serie infinita di magrissimi podisti che osservano sfrecciare al doppio della velocità facendo metà della loro fatica.
Perché a lei invece tutto doveva apparire sempre così tremendamente difficile? Relazionarsi con gli altri, mantenere un amore, parlare con i propri figli. Insomma, le riusciva difficile: vivere.
Come l’acqua che dopo aver cominciato a bollire finisce per evaporare se rimane ancora a lungo sui fornelli, accumulava tensioni ed amarezze che alla lunga la consumavano. Sempre più spesso negli ultimi tempi esplodeva nella maniera più insensata, come se a quella stessa pentola d’acqua fosse stato aggiunto il sale prima di aver abbassato il fuoco. A volte bastava un nonnulla: una persona incompetente, un addetto al pubblico maleducato, qualcuno che usasse un tono inadeguatamente leggero rispetto al suo stato d’animo, per spingerla a lanciarsi in una delle sue scenate rabbiose tanto folli quanto immotivate.
Claudia camminava in direzione della propria auto di ritorno dall’incontro con Carlo. Pochi passi avanti a lei dei signori elegantemente vestiti stavano spogliando con gli occhi due turiste che potevano avere trent’anni meno di loro. Si sarebbero comportati allo stesso modo se fossero state amiche delle loro figlie? Cos’era allora che li faceva sentire tanto audaci, che li spingeva a quelle occhiate così disinibite? La diversità dell’idioma o la sensazione di poter esprimere al meglio la loro virilità quando erano in branco tra maschietti?
Che esseri ridicoli gli uomini, quanto li compativa.
Erano fin dalla pubertà continuamente in competizione tra loro; lo sport, il conto in banca, le dimensioni del pene. Non facevano che azzuffarsi per il calcio e gonfiare come muscoli il loro infantilissimo ego. Quel modo di trasformarsi davanti ad una donna attraente poi, come era patetico. Non appena si arrapavano tiravano fuori le code come pavoni e perdevano l’uso del loro unico neurone.
Odiava essere bella. No, non era vero, non lo odiava. Non sopportava ciò che spesso comportava essere una bella donna, ecco. Sentirsi sempre osservata, studiata, desiderata. Non che a volte non fosse piacevole, ma spesso quanto la irritava.
Quei sorrisi, a volte sornioni, a volte imbarazzati. Quegli sguardi, ora furtivi, ora spavaldi. Come l’annoiavano. Essere presentata a qualcuno e vederlo deglutire nervosamente per poi pendere dalle sue labbra ad ogni battito di ciglia. Accingersi ad intervenire in una discussione e leggere fin da subito negli occhi di chi le stava di fronte un’ammirazione smisurata prima ancora di avere avuto il tempo di aprire bocca. Tutto ciò aveva il potere di farla innervosire all’istante. Ormai preferiva di gran lunga lo sguardo nascostamente invidioso di una donna a quello inebetito di un uomo.
Se alcuni avessero potuto guardare riflesse in uno specchio le loro espressioni goffe non appena casualmente incrociavano il suo sguardo. Si facevano di fiamma o si confondevano o straparlavano tutti eccitati. Bastava loro unicamente guardarla. Ma si trattava soltanto di un bel viso, neanche ben invecchiato, lontano anni luce da quello della donna che era stata a vent’anni quando si era sentita capace di far girare la testa a chiunque.
Quanto erano falsi gli uomini.
Due giorni prima, mentre stava prendendo un caffè con una sua amica, un tipo di bell’aspetto sulla quarantina ne aveva offerto una brillante dimostrazione. Seduto al tavolino vicino al loro, non appena la propria compagna si distraeva per un attimo, non faceva che guardarle. Quindi, tornando a concentrarsi sulla propria interlocutrice, si rivolgeva a lei con voce calda e suadente. Si sforzava di darsi un tono, recitava la parte dell’uomo esperto, comprensivo, disponibile.
Ad ogni frase in cui sentiva di aver dato prova di tante affascinanti qualità spiava furtivamente nella loro direzione. Forse sperava di aver rimorchiato una di loro, forse tutte e due. Cosa si era aspettato al momento della richiesta del conto quando era tornato a guardarla con insistenza? Che insieme ai soldi Claudia tirasse fuori dal portafoglio un biglietto con il suo numero di telefono? E magari che nel passarglielo di nascosto gli proponesse di fare con la propria amica un giorno di quelli una cosa a tre?
Che bambini erano gli uomini, brancolavano nella più totale incapacità di comprendere una donna. Ormai aveva raggiunto la chiara consapevolezza di quanto fosse facile prendersi gioco di loro, se solo avesse voluto. Perché allora non stronzeggiava? A volte se lo chiedeva in tono di rimprovero, soprattutto dopo aver confrontato il suo modo di relazionarsi rispetto a quello delle altre. Quanto la infastidiva l’atteggiamento falsamente ingenuo di tutte le donne attraenti; proprio non si accorgevano dei privilegi e delle opportunità che ottenevano grazie alla speranza degli uomini di portarsele a letto.
Riflettendo su questi argomenti, in preda ad un umore nerissimo, Claudia guidava verso casa imbottigliata nel traffico.
Proprio davanti a lei un’utilitaria in coda dietro un muro di auto, bloccata al centro di un incrocio, stava creando un ingorgo. Alla guida una truccatissima signora grassoccia la guardava inebetita con espressione incolpevole, come a dire: «Ma quando io sono passata era verde…»
Certi aspetti della nostra vita sono fatalmente destinati ad un disordine cronico che siamo costretti a subire senza alcuna possibilità di porvi rimedio. Claudia sentiva dentro di sé la tentazione di scendere dall’auto, aprire la portiera dell’utilitaria, prendere per il bavero della camicetta quella modella di un quadro di Botero e gridarle: « Brutta befana, ma è così difficile capire che anche se il semaforo è verde prima di passare devi comunque aspettare che la strada sia libera? »
Ma tanto era tutto inutile. Quando in passato era capitato a lei di fermarsi in attesa che l’incrocio si liberasse, puntualmente era stata sommersa dal suono isterico di decine di clacson.
Chiusa nell’abitacolo, resa insofferente dal caldo e dall’imbecillità altrui, si sentì sopraffatta dall’esasperazione; un torrente in piena che non vedeva l’ora di uscire fuori e scatenarsi contro tutto ciò che c’era intorno a lei.
Su un cartellone campeggiava la fotografia di una famiglia seduta a tavola mentre faceva colazione. Tutti erano bellissimi e sorridentissimi in quella cucina bianchissima con alle spalle una finestra con un cielo azzurrissimo. Claudia si scoprì urtatissima da quell’immagine.
Era esausta di essere bombardata dalle pubblicità, dalle offerte imperdibili, dai tre per due e dalle promozioni telefoniche. Davvero non ne poteva più di rispondere ad ogni ora del giorno alle operatrici dei call center. Si qualificavano tutte come delle dottoresse e pretendevano la sua immediata attenzione per delle importanti comunicazioni riguardo all’energia elettrica o alle utenze telefoniche.
Le sembrava che tutti volessero sempre venderle qualcosa per forza mentre quando era lei a voler comprare nessuno sapeva mai fare il suo lavoro. Il giorno prima la commessa di un negozio l’aveva salutata ciancicando un chewing-gum per poi pedinarla scaffale dopo scaffale. L’estensione del suo sorriso falso nel momento in cui le aveva chiesto il prezzo di un bikini era stata direttamente proporzionale al livello di disponibilità economica di cui l’aveva giudicata capace. Quindi dopo due minuti che era entrata nel camerino, quando ancora non le era riuscita l’impresa di rientrare nella propria consueta taglia estiva, accompagnato al suono dello scoppio di un palloncino con la bocca si era sentita belare all’orecchio: « Beeeh, come va? »
Una signora di mezz’età con un paio di jeans attillatissimi al proprio fondoschiena spropositato stava attraversando la strada sulle strisce con esasperante lentezza, come se sfilasse su un tappeto rosso. Chissà se la sua andatura era dovuta alla paura di cadere a causa delle scarpe con il tacco dodici o per come si sentiva irresistibilmente pantera.
Quanto la irritavano tutte quelle donne stagionate dai capelli tinti, pieni di ricci e colpi di sole. Entravano nei bar con il portafoglio di Louis Vuitton in mano e piene di sé cicalavano con i colleghi di lavoro. Le vedeva allargare le loro fauci inghiottendo ogni sorta di tramezzini. Con alcune gocce di maionese depositate sui lati delle loro rossissime bocche le ascoltava ridere sguaiate ad alta voce. Erano sempre così allegre e socievoli, magari persino lusingate per aver scorto lo sguardo di qualcuno infilarsi nelle scollature delle loro camicette piene di collane, reggiseni ricamati ed abbondanti tettone…
I sorrisi, le chiacchiere a proposito del nulla, le frasi di circostanza: quanto la seccavano. Il suo cortesissimo vicino di casa, un vedovo sulla sessantina totalmente vuoto, era a questo proposito il terrore del suo condominio. Ritenuto pericoloso al pari di un serial killer, aveva il supremo difetto di voler attaccare sempre discorso incurante del momento inopportuno. Per lei poi, nutriva una tale smodata ammirazione che ogni volta che la incontrava davanti al portone del loro edificio s’illuminava tutto emozionato. Era una di quelle persone che, sebbene non abbiano nulla da dire, viene loro più semplice parlare che tacere. Così, spinto dalla propria natura espansiva, amava fermare i vicini costringendoli in inutili e noiosi convenevoli piuttosto che limitarsi a salutarli e lasciarli liberi di andarsene per i fatti loro.
Aveva piene le scatole di tutto quel qualunquismo che era costretta ad ascoltare praticamente ovunque, dal banco del mercato alla sala d’aspetto del medico di base. Banalità, frasi fatte ed opinioni rimasticate si accompagnavano alle solite lamentele contro il caro vita e la disonestà della classe dirigente.
Che strano: era così infastidita da quei luoghi comuni sui politici quando provenivano da certe vecchie signore, poi però anche lei veniva assalita dal disgusto appena comparivano in televisione quei visi ipocriti. Come erano falsi mentre guardavano fissi la telecamera ripetendo la loro formuletta preconfezionata a beneficio dei telegiornali. Li osservava svolgere il compitino impartito loro da addetti stampa e consulenti d’immagine e dentro di sé idealmente li sottotitolava con ciò che le loro parole non dicevano: « Sono contrario a questo provvedimento perché va contro gli interessi del gruppo di potere a cui rendo conto per rimanere insediato nel mio seggio. Sto travestendo con la preoccupazione per l’interesse pubblico la necessità di proteggere i privilegi che mi sono accaparrato per me, la mia famiglia e la gente a cui devo dei favori. »
E che ipocriti i giornalisti che li intervistavano. Sempre pronti a lanciare loro la battuta perché quella recita risultasse più credibile. Tra questi il peggiore di tutti era suo cognato Andrea. La superbia, la falsità, la fame di successo perseguito arrampicandosi, blandendo, strisciando. Come un’infiltrazione d’acqua aveva la capacità di intrufolarsi dovunque. Lo vedeva in televisione sorridente, perspicace, brillante e confrontava quell’impressione con l’aridità che dimostrava nei confronti di sua sorella.
Quanto odiava tutte le persone infide che come lui intrigando, mentendo ed intrallazzando alla fine ottenevano sempre ciò che volevano. Era il caso di Corrado, il direttore della boutique dalla quale Carlo due anni prima era stato costretto a licenziarsi. Quando un giorno le era capitato di passare a piedi per via Sistina si era precipitato fuori dal negozio pur di salutarla da lontano. Gongolando sulla porta aveva sfoderato un largo sorriso trionfante rivolto più che a lei all’indirizzo del suo amico.
A pensarci bene però anche il buonismo di Carlo le dava la nausea. Con quella sua sicurezza di essere un così buon amico − e lo era sul serio, a dire il vero… − quell’atteggiamento sempre così saggio, comprensivo e solidale. Chissà se era così per indole, per l’affetto che provava per lei o per potersi sentire gratificato proprio dal ritenersi tanto fedele e disponibile.
Man mano che i centri concentrici della propria insofferenza si restringevano intorno a sé, sentì la propria collera divenire incontenibile.
Disprezzava Priscilla, la vecchia amica di Giulia. Sposata ad un milionario svizzero, viveva tra Milano e Ginevra conducendo una vita da principessa. Ogni volta che capitava a Roma il finto attaccamento a sua sorella era in realtà solo un pretesto perché all’orecchio di tutta la sua famiglia arrivasse l’eco dei lussi nei quali viveva. Era una di quelle persone che, raggiunto un certo status sociale, vengono rapite dalla smania di voler apparire a tutti i costi diverse da ciò che sono sempre state. In tutte le relazioni che intratteneva, a cominciare da quella con il marito, aveva assunto di colpo, insieme ad un vago accento meneghino, l’atteggiamento della signora altolocata, sofisticata almeno quanto facoltosa.
Ogni volta che nell’esprimere un’opinione veniva a trovarsi in un vicolo cieco spesso si interrompeva con la bocca socchiusa. Quasi fosse stata colta da una fulminea paresi al momento di pronunciare la vocale ”o”, con espressione riflessiva si chiedeva: «Che volevo dire?»
Guardava nel vuoto come se si fosse persa in altre preoccupazioni più urgenti ma in realtà tesa nello sforzo di cercare la battuta migliore per recitare al meglio la sua parte.
Non sopportava sua sorella Mara con il suo indisponente sentirsi arrivata dal punto di vista professionale e risolta da quello umano. Ah, quel modo saccente di guardarla, quanto le era indigesto. Concentrata esclusivamente su se stessa, sulla sua famiglia e sulla carriera, non dubitava minimamente dell’esattezza delle proprie convinzioni né dell’ordine in cui era organizzata la sua vita. Aveva sempre un suggerimento da darle: un vestito più adatto da indossare, un modo migliore in cui avrebbe potuto dire una cosa o un comportamento più adeguato che avrebbe dovuto tenere. E tutto ciò lo diceva facendolo cadere dalla vetta della sua posizione professionale ed affettiva. Forte del proprio matrimonio e del rapporto con i figli, glieli sbatteva continuamente in faccia, convinta che bastassero questi da soli a dimostrare come lei avesse avuto successo e Claudia avesse invece fallito.
La indisponeva a morte sua madre e la sua finta madreteresità. Sempre pronta a sacrificarsi per i nipoti glielo faceva continuamente scontare rimarcando le sue mancanze ed i suoi difetti. Si atteggiava come se la sua disponibilità fosse senza limiti, sempre però a condizione che non coincidesse con i suoi impegni al bridge o con Lalla, Bea, Ninni e tutto il resto delle sue sofisticatissime, danarosissime, compagnie. Chissà se quelle che si compiaceva di ritenere sue intime amiche la ritenessero tale a loro volta. Forse, viste le sue umili origini, in realtà non la consideravano molto di più di quelle terribili burine che tra le seconde mogli degli amici dei mariti tutte loro continuamente sbeffeggiavano.
Mentre guidava verso casa la sua insofferenza peggiorò ulteriormente all’idea di tornare a circondarsi dell’arredamento della sua abitazione. Imbestialiva dalla rabbia ricordando come Stefano durante la progettazione si fosse lasciato incantare da ogni proposta del suo borioso amico architetto. Ma era furiosa ancora di più verso se stessa per essersi fatta sedurre da quei rendering sofisticatissimi in cui veniva rappresentata una casa fresca, giovane, moderna.
Ciò che invece aveva intorno a sé, e giornalmente l’assediava, era un’orrenda sequenza di pareti curve e superfici inclinate. Sotto un intricato gioco di controsoffittature incastrate tra loro tipo puzzle tutto appariva in precario equilibrio. Un divano melanzana ed altri arredi di colori variabili tra il verde mela, il ciliegia e l’arancio − sull’acquisto dei quali il grande professionista aveva di certo lautamente lucrato − completavano il policromo, ortofrutticolo, insieme. Più che la suggestione di vitalità plastica che il geniale figlioccio di Philippe Starck aveva sostenuto di voler comunicare, la sensazione che aveva Claudia era quella di vivere in un bordello high tech o, più esattamente, sul set di un film di Almodovar. A parziale risarcimento della completa latitanza di idee davvero originali, sparse un po’ qua e un po’ là, trionfavano lampade di design dalle forme accattivanti, pegno obbligato all’inimitabile gusto del tronfio progettista chissà se daltonico.
da: “Giugno, anime inquiete” – Massimo Di Veroli – pp. 186 -194
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